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Se ovvia alla bellezza il poeta cade sull'ingegno

Cesare Cavalleri mercoledì 1 agosto 2012
Il poeta Emilio Rentocchini ha fatto un clamoroso ingresso sulla scena letteraria nel 2001, con quelle stupefacenti Ottave, pubblicate da Garzanti (in parte anticipate tre anni prima in Segré), in cui la padronanza della versificazione sapeva conferire alla forma chiusa una versicolore potenza di suggestione che ha lasciato quasi tutti allibiti. Ariostesco non nella fantasmagoria, ma nel guanto di velluto sul martello esistenziale.Poi vennero altre prove, anche in vernacolo, perché Rentocchini è nato a Sassuolo nel 1949, e in sassuolese bene spesso scrive. Lo apprezzo come caso particolare, ma resto allergico alla poesia in vernacolo in generale: se, come mi piace ripetere, Montale diceva che non può esistere un grande poeta bulgaro, perché il suo bacino linguistico è troppo ristretto, figuriamoci il sassuolese e perfino il pur da molti lodato gradese di Biagio Marin. Le poesie in vernacolo solitamente sono accompagnate dalla trascrizione in italiano: se la traduzione è pedissequamente letterale, non la si apprezza come poesia e si sospende il giudizio; se la traduzione regge poeticamente, come avviene in Rentocchini, allora la si ammira come ogni poesia ben tradotta da una lingua che non si ha il dovere di conoscere, ma in ogni caso il vernacolo va a farsi friggere. Le poesie in vernacolo interessano semmai i parlanti di quel vernacolo, ma il resto del mondo alza le spalle.Rentocchini pubblica adesso Ovviare alla bellezza (Aliberti, pp.160, euro 16), prose poetiche sottotitolate Proesie, con quella ingegnosa erre lì in mezzo. Ecco, uno scrittore, un poeta ingegnoso difficilmente è sempre geniale, come accade perfino al mio amatissimo e grandissimo Buzzati, molti racconti del quale sono, appunto, ingegnosi, per un ben calibrato colpo di scena, o per i nomi azzeccati dei personaggi (in questo Buzzati era maestro), o per quel qualcosa di artigianale che rende oleosa la scrittura. Limiti che si riscontrano nelle Proesie di Rentocchini, pagine di diario, storie brevi, dialoghi, aforismi semilirici: «Il poeta è colui che ascolta accadere l'ignoto, cadere le cose nell'acqua misteriosa dell'universo». Il brano che dà il titolo è fra i meno ispirati, descrive l'andatura isterica dell'apecar di un netturbino che deve spazzare la piazza dopo la fiera, mentre "gli altissimi lampioni antivandali proiettano una luce modesta che quasi non tocca il suolo". Se c'era da "ovviare alla bellezza", l'operazione è solo parzialmente riuscita.Per dirla tutta, questi frammenti di vita in cui c'è qualche sensualità ma non si trova amore, comunicano tristezza, opacità, e Dio è scritto in minuscolo, anche se il soliloquio di un Don Aldo è trascritto con fervore: "Sai cosa mi consola, che se la morte contorna ogni vita, allora ogni vita ha un gran senso, diventa comunque la vita di un santo". Ecco, in questa chiave poteva scaturire altra musica, meno "sassuolese", cioè più libera dalla terrestrità bidimensionale che caratterizza quei territori di laterizi, piastrelle e canzonette, pur con le debite eccezioni (anche Vittorio Messori è di Sassuolo).Come di solito fanno gli editori, con la complicità degli autori (o viceversa), nella quarta di copertina c'è una frase di Giovanni Giudici, poeta sopravvalutato che ben raramente ha azzeccato qualcosa: "Quella di Rentocchini è una poesia che ci rimanda ai grandi della nostra nostalgia: da Machado a Eliot, da Yeats a Rilke, da Blok a Pasternak, a Frost". E perché, fra tanti nomi a caso, non metterci anche Cummings, Francis Ponge, Auden, Michaux? E con l'Ariosto come la mettiamo? A parte gli scherzi, Emilio Rentocchini è molto bravo, da lui ci aspettiamo altre ottave, altri testi a livello di quelle prime.