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Se non ci fossero gli “addetti” alla cultura...

Goffredo Fofi venerdì 25 settembre 2015
Uno dei pochi settori economicamente vitali, nel mondo di oggi, in grado di attrarre milioni di giovani non solo come occasione di consumo ma anche come occupazione professionale, è quello della cultura – un mondo vario e impressionantemente vasto, sulla cui ricchezza e funzione si riflette troppo poco, e se è così c'è un motivo. In Italia sono 413 mila, secondo i dati ufficiali, coloro che figurano ufficialmente come addetti a Cultura e Spettacolo. In senso stretto e strettissimo. Editoria e festival, cinema e teatro e musica. Questi dati non considerano le persone coinvolte come precari e occasionali, e le attività derivate, e i dipendenti degli assessorati alla cultura, e le società e associazioni che non rientrano specificamente nel ramo – per esempio la pubblicità, o anche, come ci appare ovvio, ogni ordine di scuola pubblica e privata. E i funzionari statali regionali provinciali. E non considerano i giornalisti! E le radio e televisioni! E le grandi agenzie del digitale, i "motori di ricerca", Internet… Eccetera. A occhio, mi dice un amico statistico, la suddetta cifra va almeno triplicata, anche se non esistono studi attendibili che ci dicano quanti sono di fatto a vivere di cultura, di produzione e trasmissione di cultura in tutte le sue forme. (Beninteso, c'è chi ne vive benissimo, e non sono tanti, c'è che ne vive bene o benino, e sono tantissimi, e chi ne vive male o malissimo, tantissimi anche questi.) Vale per l'Italia: quale altra industria, anche la più produttiva, riguarda così tanti dipendenti e un giro d'affari paragonabile a questo? E allargando lo sguardo, quanti vivono dei tanti rami della “cultura” in Europa, negli Usa, in Giappone, nelle nazioni del pianeta “avanzate” o “arretrate” che siano?Di questo nei festival e sui giornali non si parla mai, per le implicazioni che ne scaturirebbero. La più vistosa è certamente d'ordine economico: l'industria della cultura e dello spettacolo, della trasmissione di notizie e conoscenze e fantasie, della pubblicità di merci e di idee per il tramite di parole scritte e dette, di immagini e di suoni è tutt'altro che in crisi e regge il confronto con i rami più “seri” e solidi dell'economia mondiale, anche se ci si ostina a non considerarla primaria e a non considerarla in blocco, come sarebbe giusto, come un settore molto più unitario di quanto non sembri. L'economia ha bisogno dell'industria della cultura e della comunicazione, e di questo viviamo tutti noi che insegniamo, scriviamo, filmiamo, recitiamo, suoniamo, redazioniamo, stampiamo, distribuiamo e via dicendo. Ma ne ha bisogno anche la politica, perché per governare servono sì gli strumenti tradizionali, in uso nelle democrazie e quelli in uso nelle dittature, con le tante varianti intermedie, ma serve anche una cultura che consoli e distragga, che riempia e che illuda, oltre a dar da vivere a un'infinità di persone. I libri e i giornali, gli spettacoli e le tv, le scuole e i festival… Perché non si parla mai di queste loro funzioni primarie, quella economica e quella ideologica, ugualmente indispensabili al sistema in cui e di cui viviamo?