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Sanguineti, l'ultimo marxista in versi

mercoledì 5 settembre 2012
​La ballata del quotidiano (il Melangolo, pp. 112, euro 12) raccoglie ventidue interviste di Giuliano Galletta con Edoardo Sanguineti, pubblicate sul “Secolo XIX” tra il 1994 e il 2009. Ne viene il realistico “ritratto in piedi” di un militante (non solo) letterario che ha lasciato traccia non delebile nel Novecento culturale (non solo) italiano. Sanguineti (Genova, 1930-2010), allievo a Torino del cattolico Giovanni Getto, docente di letteratura all’università di Salerno e poi, fino alla pensione, a Genova, è stato l’ultimo dei marxisti (anche parlamentare comunista, ma senza tessera), devoto di Alessandro Natta (il quale, peraltro, fu amico e prefatore del poeta Alfonso Gatto), coerente nella visione ideologica e disincantata della poesia che nella Neoavanguardia dei primi anni Sessanta, di cui egli è stato il teorico riconosciuto e spiazzante, ha avuto il perielio. Di persona, era un gentiluomo affabile, innamoratissimo (ricambiato) della moglie sposata nel 1954 (quattro figli), poeta che ringraziava politamente il critico, apprezzandone la franchezza, anche per le recensioni non completamente positive. Nel libro di Galletta, sobriamente prefato da Erminio Risso, troviamo schegge del Sanguineti migliore che ironizza sulle nostalgie “pucciniane” di poeti (Giuseppe Conte e sodali) che pascoleggiano fuori tempo; che, a proposito di biotecnologie, afferma che «il fatto di poter fare delle cose non vuol dire che debbano essere fatte ». È sempre lui a sostenere che «non è vero in nessun senso che ribellarsi sia per sé naturale»; che è rispettosamente cauto, anche se in dissenso, sulla rivelazione del terzo segreto di Fatima, o sul rammarico del Vaticano per il Gay Pride durante il Giubileo. Mantiene una concezione classista della società, ma, «da materialista storico» è (involontariamente) in linea con la Dottrina sociale della Chiesa nel rifiutare «che il lavoro sia considerato una merce »; del resto, «i capitalisti sanno benissimo d’essere capitalisti, i proletari non lo sanno più». Nel suo Atlante del 900 italiano, rivaluta Corrado Alvaro, Giovanni Papini e Collodi, spiacente di essersi dimenticato di Sergio Tofano (sì, proprio quello del Signor Bonaventura). E poi, da professore: «Si dice “i ragazzi mancano di comunicazione emotiva”, secondo me ne hanno fin troppa, comunicano solo emotivamente; quello che la scuola dovrebbe dare di più è proprio una capacità di discorso critico». Ai giovani poeti consiglia di leggere "un bellissimo libro di Rilke, Lettera a un giovane poeta, dove si dice tutto quello che forse si può dire al riguardo" (si parva licet, è il consiglio che, da sempre, ripeto anch’io); quanto all’antologia ideale, conferma la sua predilezione per Lucini, con Govoni e Palazzeschi, e, dopo Campana, suggerisce di passare direttamente ai Novissimi (addio ermetismo, addio Montale; Saba, e Caproni saltati a piè pari), ma grande spazio ad Apollinaire, a Eliot, e soprattutto a Pound (però Sanguineti era orgoglioso dell’apprezzamento di Ungaretti per il suo Laborintus). Sanguineti ha ragione di sostenere che Carmelo Bene "è stato il più grande attore italiano del secondo Novecento"; la pubblicità dell’ateismo militante sugli autobus di Genova ha dato fastidio anche a lui. Ecco la sintesi della sua famosa polemica con Pasolini: «Il suo punto di riferimento dichiarato era Pascoli. Io mi rifacevo invece esplicitamente all’esperienza delle avanguardie storiche». La sua bella definizione di classico: «Si dice classico un testo che viene tradotto» fa problema proprio per lui, così impervio da tradurre. Ma, fortunatamente, possiamo leggerlo in italiano.