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Rime e memoria: in due antologie il bello della scuola che fu

Cesare Cavalleri mercoledì 7 febbraio 2018
Una prima raccolta di poesie dei libri di scuola è dell'altr'anno (2016), intitolata Che dice la pioggerillina di marzo (pp. 208, euro 16) e nella premessa, l'editore Piero Manni, informa di aver forzato le perplessità dei suoi redattori più giovani inizialmente contrari alla pubblicazione di queste poesia degli anni Cinquanta. La seconda raccolta, con le poesie degli anni Sessanta, è uscita l'anno dopo col palazzeschiano titolo Cloffete cloppete clocchete (pp. 208, euro 16).
Nell'introduzione alla prima raccolta, Piero Dorfles scrive: «Senza rime [queste poesie] non le avremmo imparate così facilmente a memoria, e che l'apprendimento a memoria sia una fondamentale ginnastica intellettuale è cosa appurata». Nella presentazione alla seconda raccolta, Massimo Bray non solo afferma che «l'imparare a memoria è cosa superata», ma sostiene che negli anni Sessanta «si gettarono le basi per una didattica diversa, che insegnasse a pensare il mondo piuttosto che mandarlo a memoria». Eh, no, ha ragione Dorfles. Qui si sta parlando del mondo attraverso la poesia, e il modo infallibile per "pensare" quel mondo è imparare a memoria quella poesia. Solo memorizzata letteralmente una poesia è davvero "capita". Quindi, applausi a Dorfles, e l'invito (mio) è di studiare a memoria le poesie.
Nonostante questa scelta di campo, le due raccolte sono utilissime e le lacrime che versai in terza elementare quando imparai a memoria "L'aquilone", sono riaffiorate nel ritrovare i versi di Giovanni Pascoli nell'antologia, con quel finale dedicato al compagno di giochi precocemente defunto: sotto le zolle, «meglio venirci con la testa bionda, / che poi che fredda giacque sul guanciale, / ti pettinò co' bei capelli a onda tua madre… / adagio, per non farti male».
Per me è stata una piacevole sorpresa scoprire Zietta Liù, pseudonimo di Lea Maggiulli Bartorelli (1900-1987) che, al tempo, non mi aveva sfiorato forse perché, cresciuta in ambiente napoletano, non furoreggiava nelle scuole settentrionali che ho frequentato. Giornalista, scrittrice, attiva nella sede Rai di Napoli, è stata lei a scoprire i cantanti Edoardo, Eugenio e Giorgio Bennato. Le sue poesie, stralunate e surreali, davvero anticipano la verve di Gianni Rodari, protagonista di Cloffete cloppete clocchete, che comprende anche testi in altre lingue e prove di cantautori (Gaber, De André).
Ancora Piero Dorfles osserva che nelle poesie degli anni Cinquanta «è centrale l'esaltazione dei valori della famiglia, il confortante rapporto tra genitori e figli, tra nonni e nipoti. È un filo che attraversa tutte le tematiche: un paradigma antico, un po' patetico e per niente ironico, tutto bontà e dedizione degli adulti e ingenuità e affettività disinteressata dei pargoli». Ma certo! Che cosa si vorrebbe insegnare ai pargoli, se non quell'ethos naturale (cioè cristiano) che ancora costituiva il tessuto sociale? Anche i comunisti preferivano iscrivere i propri figli alle scuole dei preti.
Dato l'uso e il destino delle due raccolte non si pretende un eccesso di rigore filologico, ma qualche riferimento bibliografico in più sarebbe stato gradito, così come i testi originali delle poesie in altre lingue, o almeno i nomi dei traduttori. Quanto alla presenza dei cantautori, non la condivido, come deploro il Nobel a Bob Dylan. Nella canzone, testo e musica fanno tutt'uno, è un genere a parte, non solo letterario. Sarebbe come antologizzare gli orrendi libretti delle opere liriche che invece, quando sono cantati (magari dalla Callas), diventano sublimi.
Tra Carducci, Pascoli, Ada Negri, Renzo Pezzani, Enrico Panzacchi (le cui poesie Papini tacciava di «merdicine rimate»), non ho trovato Cesare Betteloni (1808-1858), autore dei socialisteggianti "Due vomeri" che mi avevano fatto studiare a memoria da ragazzo. Li trascrivo qui: «Un dì d'autunno un vomere / fattosi per lungo ozio rugginoso / vide il fratel tornarsene / dai campi luminoso, / e domandò curioso: / "Sopra la stessa incudine / fatti, e d'un solo acciaro, / io son pien di ruggine, / tu sì pulito e chiaro: / chi mai ti fé si bello?" / "Il lavoro, fratello"».