Rubriche

Ragazzi

venerdì 18 aprile 2014
​C’è
un tema molto trascurato dalla letteratura contemporanea, che sembra confrontarsi
solo con le tragedie più ovvie, contrapponendo loro, più che una catarsi, un
mondo di discutibile bontà o una solidarietà tanto generosa e solerte quanto ambigua
e insincera. È il tema del suicidio dei giovani e in particolare degli
adolescenti, dei feriti nel profondo dalla constatazione di un mondo da cui non
si sentono accolti e protetti. Non ho in mano le statistiche, ma credo siano sempre
tanti i ragazzi che si ammazzano, che si rifiutano all’ingresso in un’età che
presume di essere adulta, «matura». Molti anni fa assistemmo sconcertati e
spaventati a una sorta di suicidio di massa attraverso le droghe forti di una
parte consistente della generazione che aveva tentato, col ’68, una «scalata al
cielo» rivelatasi assolutamente perdente, anche per la fragilità e presunzione dei
suoi membri. Oggi, con la mutazione in atto (dall’uomo al robot? non si direbbe
che sbaglino i filosofi che parlano da tempo di «post-umano»), si chiede ai
nuovi arrivati sulla scena della vita di adeguarsi a un ordine che lascia poco
spazio alle autonomie individuali e che produce un’ossessiva assuefazione al
mercato, la frenesia di un consumo che porta all’ottundimento della coscienza. Questa
presunta «felicità» nel consumo e nel non-pensiero si scontra però con la
durezza della crisi, con le strettoie poste alla possibilità di sopravvivere
decentemente da un potere che fa di tutto perché le nuove generazioni siano
formate da personalità dimidiate, da esseri consenzienti ai suoi valori – ai
suoi poteri – e non da esseri pensanti e volenti. Pensanti altro, volenti altro.
Di fronte alla prospettiva di questa soggezione, c’è che non vuole diventare
adulto, c’è chi è spaventato dagli adulti e dall’età adulta e si tira fuori dal
gioco, non trovando nell’ambiente la forza di cercare con altri un futuro
diverso. La figura letteraria che mi è sempre sembrata rappresentare meglio il
rifiuto dell’età adulta appartiene, non a caso, alla letteratura per l’infanzia,
ed è Peter Pan. La maturità è un mito, ci hanno spiegato molti sociologi e
psicologi, da Paul Goodman (di cui Eleuthera ha appena ristampato i bellissimi
saggi di >Individuo
e società
>)
in poi. La «sindrome di Peter Pan» è ancora ben presente nel mondo, ma ci dice
con un po’ di ottimismo Federico Argentieri, giovane insegnante di liceo, nel
sofferto saggio che ha intitolato >La più grande avventura>, sottotitolo «Figure del tempo nelle storie di
Peter Pan e Harry Potter»: non c’è solo Peter Pan, c’è anche Harry Potter, che
non si rifiuta al tempo ma cerca di starci, molto faticosamente, dentro. Potter
vuole crescere. Le due figure, dice Argentieri, sono entrambe imperfette ma si
completano a vicenda. Ci auguriamo sia vero, e che la letteratura possa dar
vita a una terza figura rappresentativa di un equilibrio tra la coscienza della
difficoltà di diventare adulti e la volontà di crescere riuscendo a controllare
almeno in parte il proprio destino. Non sarà una strada indolore, ma certamente
c’è chi la sta già cercando, non da solo.