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Raffaela e le madri dell'Afghanistan

Antonella Mariani giovedì 26 novembre 2020

Durante i primi anni di università, Raffaela Baiocchi sognava di curare tutti. «Avevo un'idea romantica della medicina», dice in videocollegamento con Avvenire dalla sua casa addossata alle montagne, nella valle del Panshir, due ore di macchina a nord di Kabul.

La giovane studentessa marchigiana che sognava di salvare il mondo è andata lontano: ora cura le donne e fa nascere i loro bambini in un Paese duro e difficile come l'Afghanistan.

Raffaela (con una sola "l" per un guizzo di creatività del padre all'anagrafe) ha 47 anni, tratti sottili e capelli scuri su due occhi accesi da una incontenibile passione; sta dedicando la sua vita a costruire una sanità efficiente per offrire cure mediche con standard occidentali a donne che non hanno in mano le chiavi del proprio destino.

«Sono arrivata qui nel 2007, Emergency aveva avviato da 4 anni il Centro maternità di Anabah»; l'impatto, Raffaela non lo nasconde, è stato traumatico. «Qui le donne hanno una prospettiva di vita e un rapporto con la maternità del tutto diversi: la mortalità infantile è 99 volte più alta che in Italia e quindi le famiglie mettono al mondo molti figli. Dai 18 ai 45 anni, una donna può partorire fino a 15 bambini. Ho incontrato donne stremate, anemiche, malnutrite... ».

Il luogo in cui vive e lavora Raffaela è selvaggio, arido e suggestivo: una valle lunga e stretta, incorniciata da vette aguzze, in un comprensorio in cui vivono 250mila persone, disseminate in villaggi rurali. «Nell'ospedale c'è la maggior parte delle attrezzature che potrei avere a Milano, ciò che cambia sono le pazienti. Arrivano donne mai visitate prima, alcune non sanno nemmeno la propria età, né l'età gestazionale del bambino che portano in grembo. Chiediamo se assumono medicine, e loro rispondono: sì, ma non so come si chiamano».

Raffaela oggi è la responsabile dell'intera area ostetrica-ginecologica della ong italiana Emergency, ma è l'Afghanistan che sente come casa sua, dove trascorre la maggior parte del suo tempo. L'ospedale, che quattro anni fa è stato ingrandito con un nuovo blocco intitolato alla ricercatrice Valeria Solesin, uccisa nell'attentato al Bataclan del 2015, ha 104 posti letto e prima del Covid registrava 650 parti al mese, ridotti ora a circa 400: una rivoluzione, in una zona del mondo in cui i parti avvengono in casa e una donna ogni 14 muore per una complicanza legata alla gravidanza. È l'unica struttura ostetrico-ginecologica gratuita e accessibile liberamente in una regione vastissima, oggi resa più insicura dalla recrudescenza degli scontri tra fazioni.

Le donne per cui Raffaela prova una tenerezza particolare sono quelle che arrivano dalle aree più interne e arretrate, che «hanno un potere striminzito sulla propria vita e su quella dei figli. Talvolta le partorienti giungono da noi dopo ore di viaggio, su auto arrugginite, molto in ritardo rispetto alle necessità, perché sono i padri e i nonni a decidere se e quando partire per l'ospedale. A questo ritardo se ne sommano altri: la distanza, l'insicurezza del viaggio perché lungo la strada si può incappare in bande di malfattori, e, infine, la nostra difficoltà di trovare rapidamente la cura adeguata perché non conosciamo la paziente. I rischi per la salute di madre e figlio si amplificano».

E c'è un altro risvolto del lavoro ad Anabah che fa brillare gli occhi di Raffaela: sono le decine di donne afghane che lavorano nell'ospedale di Emergency. Le specializzande, prima di tutto, che sfidando le consuetudini si avviano a una brillante carriera medica. E poi le ostetriche e le infermiere, che hanno dovuto lottare per poter lavorare fuori casa e adesso, con la loro indipendenza e il loro stipendio superano i tabù della cultura tradizionale e trasmettono un nuovo ruolo femminile nella società afghana.