Rubriche

Quell'azzurro luglio 1982 e il senso della nostalgia

Mauro Berruto mercoledì 13 luglio 2022
La celebrazione per l'anniversario della vittoria della nazionale azzurra al Mondiale del 1982 ha occupato pagine intere dei quotidiani, invaso i social media. C'è anche una colossale produzione letteraria e cinematografica che racconta l'impresa di quei nostri calciatori azzurri. Lunedì scorso, quarantesimo 11 luglio dopo quello fatidico del 1982, ho voluto fare un piccolo esperimento. Sui tutti i miei account social ho pubblicato soltanto una fotografia in bianco e nero, il colore della nostalgia: Enzo Bearzot portato in trionfo dai suoi ragazzi. A commento solo una frase di quattro parole: «Dove eri quella sera?».
In poche ore è arrivato un diluvio di commenti. La partita, il risultato, la Coppa, l'urlo di Tardelli o la pipa di Bearzot sono paradossalmente passati in secondo piano. Sono emerse centinaia di storie di famiglia, di partite guardate con un papà o con un nonno mai visto così felice, di amicizie inossidabili, di abbracci con persone che oggi non ci sono più, di un dente rotto da un involontario pugno a causa di braccia alzate verso il cielo per esultare, di campeggiatori radunati intorno ad una tv in bianco e nero alimentata da un gruppo elettrogeno, di mamme che cucivano a tempo record bandiere tricolori, di code in autostrada, di una 850 gialla con sei persone dentro e una sul cofano, di caroselli in città, di bagni nelle fontane, di luoghi, persone, istanti del cuore. Centinaia di descrizioni di istanti di felicità pura. Gioia, gioia, gioia sconfinata, la gioia di un popolo intero che sentiva che si stava mettendo alle spalle anni difficilissimi. Il calcio, quella sera al Santiago Bernabeu di Madrid, era stato la dinamite che aveva fatto saltare una diga e un flusso travolgente di emozioni si era messo in moto. Cose da pelle d'oca e groppo in gola solo a leggerle, quaranta anni dopo.
Sì, certo, il merito era di quei calciatori con la maglia azzurra guidati da un condottiero scolpito nel granito, ma in realtà quel Mondiale di quarant'anni fa riguarda ciascuno di noi, bambini, adolescenti, giovani adulti all'inizio di quegli anni 80. Quella squadra aveva dimostrato che l'impossibile può diventare possibile e che dalle grandi difficoltà si può rinascere. Questo nostro ricordarci, oggi, dove e con chi eravamo o cosa stavamo facendo, altro non è che il sintomo di una nostalgia sconfinata per un momento della nostra vita in cui ci siamo sentiti tutti campioni del mondo, invincibili al fianco di qualcuno che era lì a vivere quel momento insieme a noi.
È inutile cercare di replicare l'11 luglio 1982. Ogni epoca ha le sue sfide, le sue difficoltà, i suoi eroi, i suoi vincitori, i suoi sconfitti. Ma chi, oggi, ha almeno cinquant'anni può abbandonarsi a un po' di sana nostalgia. «Se vuoi costruire una barca – diceva Antoine de Saint-Exupéry – non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire degli ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Nutriamoci di quella nostalgia, non è un peccato. Semmai è un modo per ricordare a noi stessi che c'è sempre un modo per farcela e che lo sport è, e resterà, un meraviglioso segnalibro delle nostre vite.