Rubriche

Quanto pesa una medaglia al collo di una tredicenne

Mauro Berruto mercoledì 28 luglio 2021
Ogni edizione dei Giochi Olimpici porta con sé una quantità infinita di storie affascinanti, struggenti, drammatiche o a lieto fine. Gli oltre undicimila ospiti del Villaggio Olimpico hanno tutti alle spalle una vicenda umana e agonistica straordinaria (quantomeno nel senso di fuori dall'ordinario) perché se così non fosse, semplicemente, non sarebbero lì. Dietro a quelle donne e a quegli uomini che sono arrivati a varcare la soglia di ingresso di quel luogo magico, ci sono famiglie intere, comunità, allenatori che hanno dedicato la loro vita per rendere loro possibile quel sogno. Deve essere una specie di eredità ancestrale che arriva dall'Antica Grecia dove era la polis a inviare a Olimpia i propri migliori giovani, finanziandone (oggi diremmo sponsorizzandone) gli allenamenti non per aprire una linea di credito nei loro confronti, ma semplicemente per poter partecipare del loro eventuale trionfo sportivo. La stessa emozione che riviviamo in questi giorni vedendo nonni in lacrime, allenatori abituati a lavorare dietro le quinte intervistati dai telegiornali, sindaci, amici, ex compagni di scuola commossi, felici, orgogliosi.
I Giochi Olimpici, nella loro storia recente, hanno conservato questa antica sensazione di partecipazione collettiva all'impresa sportiva aumentando, di edizione in edizione, il numero di sport che ne fanno parte. Per ragioni di geopolitica sportiva ogni Paese organizzatore propone di inserire nuove discipline vicine alla propria cultura e dove, naturalmente, può esprimere atleti di qualità. Così, oltre al karate (inevitabile l'inserimento dell'arte marziale nata proprio nell'isola di Okinawa), softball, baseball, arrampicata e surf, in Giappone, sotto la bandiera con i cinque cerchi, è arrivato lo skateboard. La cosa interessante non è il legittimo dibattito fra puristi rispetto al bouquet degli sport che possano considerarsi olimpici (resta la pregiudiziale del Cio che vuole sport di diffusione planetaria e di uguale possibilità di accesso a uomini e donne), ma una situazione che lo skateboard ha generato: nella gara femminile ha vinto la tredicenne giapponese Momiji Nishiya, regalando alla nazione ospitante l'oro e Rayssa Leal, brasiliana, anche lei di 13 anni, ha vinto l'argento. Ventisei anni in due per la campionessa olimpica e la sua vice, tanto da far sembrare una veterana la terza classificata, Funa Nakayama, anche lei giapponese e sedicenne. Considerato l'impatto gigantesco che una medaglia olimpica comporta, la responsabilità, la richiesta di ispirare, le pressioni, la necessità di sostenere un'improvvisa planetaria popolarità, la domanda appare lecita: una ragazzina di tredici anni ha strumenti a sufficienza per gestire tutto questo?
Nella storia dei Giochi ci sono dei precedenti: quello di Nadia Comaneci quindicenne a Montreal 1976 o quello della tredicenne medaglia d'oro nei tuffi, la statunitense Marjorie Gestring, ma bisogna tornare indietro fino a Berlino 1936. Era un secolo diverso, un mondo profondamente diverso. E se nello stesso giorno del podio dello skateboard a fare media ci ha pensato Abdullah Al-Rashidi, bronzo nello skeet per il Kuwait a quasi 58 anni, una riflessione sul senso appare inevitabile: una medaglia olimpica al collo di una tredicenne non è forse troppo pesante da sostenere?