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Quando impareremo a sentire il dolore di quelli che fuggono?

Maria Romana De Gasperi sabato 22 settembre 2018
Anche ieri un titolo di giornale: «Naufragio al largo della Libia: oltre 100 morti». Com'è strano l'animo umano: se qualcuno grida sulla nostra spiaggia che sta per annegare, tutti ci sentiamo responsabili quando non fosse possibile salvarlo. Questi morti affogati invece pare non ci commuovono. È forse il diverso colore della pelle, la difficoltà di comprendere la lingua, la lontananza delle abitudini di vita, di credo religioso, di storia del loro paese che ci assolvono dalla nostra mancanza di pietà.
Come sono lontani dalla nostra cultura le genti del Ciad, del Sudan, del Senegal che ieri cercavano aiuto nei nostri paesi. Pochissimo o niente sappiamo della loro vita, delle loro esperienze e delle speranze e per questo non abbiamo neppure comprensione per i loro sentimenti. Così la scomparsa di un barcone nelle acque del nostro mare viene letta come una notizia negativa, ma senza trasporto. Per la maggior parte di noi essi hanno tutti lo stesso colore e vengono a disturbare la nostra pace e il nostro lavoro. Dall'altra parte c'è chi guadagna sugli affanni, le paure, l'abbandono del paese, della lingua e della famiglia per andare incontro a un futuro incerto e forse peggiore di quello promesso da quel terribile esercito di scafisti che in ogni modo riesce ad attraversare il Mediterraneo. Per anni li abbiamo contati, abbiamo dato loro da mangiare e da dormire, abbiamo scritto i loro nomi, poi li abbiamo messi in campi di attesa di un futuro che le nostre autorità avrebbero dovuto decidere. È la piaga del nostro secolo, è la sfida alla nostra umanità, a quell'uguaglianza che il comunismo ci aveva annunciato, a quella offerta di pace e di condivisione del pane del Vangelo così difficilmente da realizzare.
La storia che a scuola abbiamo studiato, dove emigrazioni di popoli e guerre non ci colpivano perché lontane dal nostro tempo, oggi tingono di colore scuro i nostri giorni quando ormai pensavamo fosse cose superate da un vivere più civile e rispettoso delle diversità. Sembra invece di riprendere vecchie rivalità, antiche prepotenze sostenute da armi nuove e più distruttive. Armi che i popoli che vivono al sicuro vendono a chi la pace non l'ha mai avuta, dove la libertà e l'autogoverno sono arrivati senza l'esperienza sufficiente per rispondere alle richieste di chi non conosce limiti e doveri di un sistema democratico a cui per crescere serve tempo. Allora si fugge dalla guerra, si prende la prima barca e si scende sulla prima spiaggia. Cosa offrirà loro la vita?