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Perché piace Zerocalcare se mal disegna i giovani?

venerdì 16 ottobre 2015
Conosco bene l’opera di Edmondo Baudoin, grande disegnatore francese (ma del Midi, per la precisione nizzardo) maestro del bianco e nero, meno quella del suo amico che si firma Troubs, ma i due libri – che è giusto chiamare fumetti anche se è molto riduttivo – che hanno disegnato insieme sono tra le cose più belle e intense della letteratura per immagini e rientrano a pieno diritto in quel filone, giustamente premiato a Stoccolma nella persona di Svetlana Aleksievic, che è la nuova letteratura basata sull’inchiesta, d’origine giornalistica (anche se ha molto poco a che fare col giornalismo corrente). Il fumetto è amato e praticato piuttosto dai giovani che dai vecchi, ma i lettori di Baudoin sono tantissimi, e si riconoscono nelle sue solide istanze, attente alle sofferenze e alle battaglie delle persone comuni, e all’amore, all’amicizia, alla sete di giustizia. Ho letto con uguale interesse l’ultimo lavoro del nostro Zerocalcare, anch’esso nella forma del diario e del viaggio, che racconta benissimo la sua generazione (i venti-trentenni) ma con la stessa ambiguità con cui – mettiamo – Nanni Moretti raccontò quella del ’77, compiacendone ed esaltandone i limiti, le chiusure. I due libri francesi di cui parlo sono diari di viaggio in America Latina, a Ciudad Juarez, sulla frontiera tra Messico e Usa nota per le stragi di donne compiutevi dai narcos (Viva la vida, Coconino Press), e in Colombia, nei villaggi montani dove è attiva la guerriglia delle Farcs (Le gout de la terre, L’Association, inedito in Italia). Baudoin e Troubs sono riusciti dove decine di giornalisti, fotografi, antropologi hanno fallito, a farsi raccontare dalla gente la vita e le pene (se gli altri hanno fallito è perché si sospetta degli estranei: possono essere spie e poliziotti…). Com’è stato possibile? Grazie alle loro matite. È venuto spontaneo che, mentre erano seduti a un tavolino di bar e disegnavano qualcosa, persone si avvicinassero incuriosite; è venuto spontaneo che in cambio di un loro ritratto essi accettassero di raccontare ai due stranieri. È accaduto, credo, anche perché i due artisti sapevano cogliere nel disegnare quel che c’è dietro un volto, le esperienze, le sofferenze, le gioie: una forma di umanesimo antica che dovrebbe tornare a esser nuova. Zerocalcare è bravissimo nel narrare i giovani della sua generazione e se stesso, non a disegnarli. È proprio nella disumanizzazione dei volti e dei corpi che esprime una visione dell’uomo che li svilisce, anche se loro ci si riconoscono, una visione che esprime in definitiva una sorta di disistima, se non di disprezzo, per l’uomo (e di conseguenza di scarsa considerazione per se stessi). È così che si vedono i giovani di questi anni così tragici e, in Italia, così stupidi?