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Perché le rivoluzioni falliscono sempre

Cesare Cavalleri mercoledì 17 ottobre 2012
Un piccolo libro di Irène Némirovsky, non pubblicato da Adelphi ma da Castelvecchi, raduna sotto il titolo Nascita di una rivoluzione (pp. 64, euro 7,50) tre racconti della grandissima che tanto veneriamo. I primi due furono pubblicati nel 1938, il terzo si trova nelle Oeuvres Complètes stampate l'anno scorso. Quest'ultimo racconto prende il titolo dal nome della protagonista, Émilie Plater, una nobile polacca un po' Giovanna D'Arco, un po' Cristina di Belgioioso, che si mise alla testa di un manipolo di contadini per combattere l'invasione russa della Polonia nel 1831. La generosa iniziativa ovviamente finì male, ed Émilie morì di febbre a 25 anni rimanendo però un simbolo dell'indomito patriottismo polacco. Il secondo racconto, «Magie», c'entra ancor meno con la rivoluzione, se non perché tratta di esuli russi in Finlandia dopo il 1917 – come toccò a Irène stessa da bambina – che sfidano il destino con ingenue sedute spiritiche. Il primo racconto, eponimo, riguarda un episodio di cui la piccola Irène fu testimone nel 1917, e che è già stato ripreso in uno dei romanzi némirovskiani (non ho voglia di ricercare in quale, ma li ho letti tutti). Si tratta della finta fucilazione di Ivan, il portiere del palazzo di Irène, «colpevole» di aver ospitato un poliziotto (suo genero). I rivoluzionari rossi inscenano la macabra pantomima per «dare una lezione». Portano al malcapitato i figli da baciare, gli fanno recitare le preghiere, gli bendano gli occhi, sparano volutamente fuori bersaglio e poi si danno cameratescamente da fare per rincuorare la vittima della loro efferatezza. «Com'è possibile – si chiede Némirovsky – che degli uomini infliggano un simile supplizio a un altro uomo, spontaneamente?». Più tardi capirà. Era l'inizio della rivoluzione, quando gli uomini non avevano ancora perduto le abitudini della pietà, ma già il demonio stava prendendo possesso della loro anima. L'episodio dà spunto alla bella prefazione di Susanne Scholl, collaboratrice di Le Monde e autrice di un documentario sull'assassinio della collega russa Anna Politkovskaja. «La rivoluzione – scrive Scholl – scatena la speranza, la gioia, ma abbatte anche tutti quei confini di cui l'uomo ha bisogno per non abbrutirsi», per cui alla fine la rivoluzione può solo fallire. È un tema alto, che Albert Camus affrontava nel Primo uomo, romanzo cui stava lavorando prima di morire nell'incidente stradale del 4 gennaio 1960, e sul quale ragiona Alain Finkielkraut in un bellissimo capitolo di Un cuore intelligente (Adelphi). Camus, in occasione del Nobel 1957, incalzato dalle domande sulla guerra d'Algeria, aveva detto: «Amo la giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre». Sartre se ne scandalizzò, e ruppe l'amicizia con Camus, ritenendolo dalla parte dei pieds-noirs, cioè gli oppressori, contro i quali l'ideologo in pantofole Sartre predicava la rivoluzione, necessariamente violenta. In realtà, pare che Camus avesse più correttamente detto: «In questo stesso momento ad Algeri si gettano bombe sui tram. Mia madre potrebbe essere su uno di quei tram. Se questa è la giustizia, preferisco mia madre». Vale a dire che nessun ideale, nessuna pur buona causa può cancellare la pietà. Nell'Ultimo uomo, Camus inserisce un aneddoto appreso da suo padre che aveva combattuto nel 1905, in Marocco, con i francesi. Un giorno, vedendo il cadavere di un commilitone vilipeso dai nemici, rispose a chi gli faceva notare che quelli difendevano con ogni mezzo la loro patria: «Può darsi. Ma hanno torto. Un uomo non fa queste cose». E aveva condensato il ragionamento in questa semplice frase: «Un uomo si trattiene». Un motto, un programma. Del resto, il sommo Ezra Pound aveva già scritto: «Controllati, e gli altri ti sopporteranno».