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Tokyo 2020. Per quegli 11mila atleti (e anche per Alex)

Mauro Berruto mercoledì 21 luglio 2021

Ci siamo, due giorni e si comincia. La migliore gioventù del pianeta, questa volta dopo un inaudito percorso a ostacoli, si svelerà al mondo nella cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici più tribolati che mai. Anzi, la metà di loro, perché pare, e le notizie si aggiornano di ora in ora, che solo la metà dei partecipanti potranno sfilare. Quelli di Tokyo avrebbero potuto essere i Giochi della ripartenza, la prima risposta planetaria a un problema planetario. Non sarà così, purtroppo. Non sarà così perché un'enorme parte di mondo è ancora in pieno dramma Covid-19, non sarà così perché nonostante un miracolo scientifico non siamo riusciti a garantire un accesso veloce e democratico ai vaccini per una grande fetta di mondo.

In quella piccola porzione di nazioni dove i vaccini sono disponibili abbiamo perso tempo a causa di sciagurati modelli negazionisti, come gli Usa dell'ultimo Donald Trump, il Brasile di Jair Bolsonaro, il Regno Unito del Boris Johnson prima versione. E ancora: in quell'ulteriormente piccolo spicchio in cui l'argine della ragione ha tenuto e che ha affrontato il contesto in modo razionale, qualche ciarlatano si è divertito ad alimentare la follia no-vax. Insomma, sarebbe stato bello celebrare dopodomani una rinascita mondiale, ma non sarà così. Ci sono atleti che ai Giochi non parteciperanno per la sfortuna di una positività al momento sbagliato e il silenzio delle tribune vuote, un vero e proprio ossimoro olimpico, ci ricorderà che nel dramma ci stiamo ancora sguazzando.
Se posso sbilanciarmi in un pronostico, le tante sorprese dal punto di vista agonistico ci ricorderanno che Tokyo 2020, diventata 2021, si farà soltanto perché non si poteva spedire il Giappone verso un collasso finanziario peggiore di quanto già non sia. Il popolo giapponese sembra freddo, se non apertamente contrario, qualche sponsor importante sta abbandonando la barca, l'attenzione più che sui protagonisti e sulle gare sembra spostata sulle procedure, sui protocolli, sui tamponi, sui casi di positività.

Ci tormenteremo probabilmente con una domanda: era il caso? Non c'è e non ci sarà mai risposta, ma l'unico pensiero corre a quei, più o meno, 11mila atleti che da cinque anni aspettano questo giorno. Interpretiamoli pure come Giochi anomali, ma rispettiamo la fatica che ha accompagnato quegli 11mila in tutto questo assurdo ultimo anno e mezzo. Rimarranno le imprese sportive, le grandi vittorie, le sconfitte fragorose, rimarrà l'emozione della medaglia, dell'inno, rimarrà la sensazione di aver dedicato quattro (in questo caso cinque) anni di programmazione, di sudore, di attenzione ai più piccoli dettagli per rincorrere un'utopia.
Mai come in questo caso quell'utopia sembra tale, e prova fino all'ultimo istante a non diventare realtà. In parte forse il virus ha vinto, ma in parte ha vinto quell'umanità che potrà utilizzare questi Giochi Olimpici dell'anno dispari come gigantesco promemoria: nessuno si salva, o vince, da solo. Proprio per questo a me, personalmente, piacerebbe che le vittorie italiane ricordassero il più grande campione della fatica e delle utopie realizzate: Alex Zanardi.