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OCCHI E BOCCA

Gianfranco Ravasi venerdì 16 luglio 2004
Gli occhi ti dicono quello che uno è; la bocca, quello che è diventato. È scritta su un cartoncino color avorio, in inglese, la frase che oggi propongo. La ricevo coi saluti di un amico che risiede in Inghilterra, e ben esprime quello che noi chiamiamo "l'humour inglese". A scriverla è stato il romanziere John Galsworthy (1867-1933), noto soprattutto per quella sterminata Saga dei Forsyte divenuta anche un film nel 1949 (la nostra citazione, però, appartiene all'opera Landa in fiore). C'è, dunque, un linguaggio degli occhi che è certamente più sincero e spontaneo. Un linguaggio, certo, da decifrare, ma prezioso per cogliere l'interiorità: non per nulla gli innamorati, esaurite le parole, si guardano negli occhi, e quella diventa la comunicazione più intima e profonda. E poi c'è la parola che fuoriesce dalla bocca, spesso come un fiume in piena, altre volte quasi al contagocce. E' questa la rappresentazione sperimentale di quello che siamo diventati, attraverso le scelte ora squinternate ora sorvegliate della nostra personalità. Non per nulla c'è un bel motto rabbinico che afferma: «Lo stupido dice quel che sa; il saggio sa quel che dice». Sulla parola, come cartina di tornasole della persona, tutte le culture e le spiritualità si sono accanite con molteplici insegnamenti. Ne ricorderemo solo uno, desunto dal libro dei Proverbi biblici: «Una parola detta al momento opportuno è come un'arancia d'oro su un vassoio d'argento" Che gioia rispondere con sapienza! Come è bella una parola detta al momento opportuno!» (25, 11; 15, 23). Una lezione da praticare più spesso, vegliando sulla lingua, «mettendo un freno alla bocca» come dice il Salmista (39, 2).