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Noi digitali e feudali nuovi servi della gleba

Raul Gabriel martedì 6 giugno 2023
Lanciate nella cavalcata cieca e travolgente verso un futuro incognito che ricorda certe raffigurazioni dei cavalieri dell’apocalisse in versione bit, le IA trascinano con sé una quantità di temi inediti non solo per formulazione ma anche per contenuto. Se “nuovo” ha un senso (mai assoluto beninteso) questo è il caso. È altrettanto vero che l’ennesimo cataclisma digitale scuote questioni eterne cui non può sottrarsi perché le intelligenze artificiali, valchirie dal sincretismo anomalo che tutto pretende di ricondurre loro, sono legate indissolubilmente alla sostanza analogica della nostra storia. Una delle faccende principali, posta sotto relativo silenzio, è di natura politica. Le IA nascono nell’alveo di una dittatura che si vende per popolare solo per illudere il cliente di contare qualcosa oppure sono il presidio di una democrazia tendente a una anarchia onnidirezionale priva di riferimenti, luogo utopico votato alla distruzione di se stesso? Un interrogativo simile si era già posto ai tempi degli esordi di Facebook e del primo web. L’informazione per tutti, da tutti, tutti contano allo stesso modo, tutti possono essere tutto e dire tutto. Poi è successo che le rivoluzioni nate online e travasate sulle piazze non hanno avuto un destino propriamente glorioso. La osmosi fluida dei contenuti web nel mondo in carne e ossa (e viceversa) è un falso storico. Altra semplificazione, altra fandonia. Oggi il tema è sensibilmente diverso. Le IA, prodotto del digitale, ne sono diventate la sorgente, chiudendo un circolo autoreferenziale le cui espansioni selvaggiamente proteiformi sono al tempo stesso figlie e madri. Immagino che qualcuno sosterrà la demagogia libertaria delle IA: “tutti contribuiamo ad implementarle, siamo la sorgente del loro sapere che tornerà a nostro vantaggio”. Le IA come immensi crawler dell’umano, della stessa radice del sapere, generose dispensatrici di riorganizzazioni del pensiero gentilmente fornito da tutti noi. Idea perlomeno puerile. Le intelligenze artificiali non sono un nostro prolungamento, non veramente. Sono invece frutto della espropriazione consensuale da parte nostra di ciò che produciamo. Ciò che produciamo, sia chiaro, non ciò che siamo, anche se per il mercato non fa una grande differenza. Di ciò che mutuano fanno quello che vogliono, soggette al controllo (relativo) di pochi. Subiamo e subiremo sempre più le ondate cicliche del frullato di noi stessi rielaborato in infinite versioni che con noi non hanno più nulla a che fare, arti escissi ormai estranei. Le IA sono il regno della autocrazia. Non ci si può fare nulla, naturalmente, importante è rendersi conto che “continuita”, “sostenibilita”, “allargamento paritario del sapere” e storielle di questo genere nel contesto che si va profilando sono password per hackerare il senso critico e fare di noi tutti i trojan che svelano il mistero. Per fortuna il mistero fondamentale non ci è accessibile. Ma per quanto riguarda i misteri di categoria inferiore, quelli li abbiamo già ceduti. La foto più o meno intima della utente sparsa per il web dal robot aspirapolvere di casa è la versione barzelletta di un rinnovato droit du signeur feudale da cui non riusciremo a salvare nulla, noi, novelli servi della gleba tecnologici. © riproduzione riservata