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Nella vertigine della «Creazione» di Haydn in principio era la musica

Andrea Milanesi domenica 27 luglio 2008
Aveva sessantasei anni Franz Joseph Haydn quando nel 1798 si accinse a scrivere La creazione. Un'intera esistenza passata a comporre musica per allietare la vita di corte della più alta nobiltà europea e ora gli toccava il compito più arduo, almeno a livello di concezione di pensiero e tensione spirituale: affidare al pentagramma l'atto generativo primordiale da cui ogni cosa era stata originata, paradigma dello stesso gesto creativo a cui era quotidianamente chiamato dal punto di vista professionale in veste di artista.
Con tale senso di vertigine nella mente, di sproporzione nel cuore e di tremore nelle mani si dovrebbe affrontare l'esecuzione di questo oratorio haydniano, sfolgorante capolavoro della letteratura musicale sacra; ed è con tale coscienza che Paul McCreesh è salito sul podio per guidare la formazione dei Gabrieli Consort & Players e il Chetham's Chamber Choir in una più che convincente lettura della Creazione (2 cd pubblicati da Archiv e distribuiti da Universal Music Italia), curando egli stesso la ricostruzione della versione in lingua inglese del libretto (andata perduta).
Tutto concorre infatti verso una celebrazione assoluta, devota e stupita, dell'onnipotenza con cui Dio dal nulla ha creato spazio e tempo, luce e materia, ma anche della forza con cui ogni cosa è stata plasmata e forgiata a Suo piacere e secondo la Sua volontà; a partire dalla deflagrazione orchestrale chiamata a evocare il Caos, vero e proprio "big bang" che segna l'inizio dell'inizio, il "già" e il "non ancora", pagina musicale enigmatica e di grande suggestione dalla cui esecuzione, tradizionalmente, è possibile individuare il punto di riferimento ideale e l'orientamento generale verso cui tende ogni interpretazione.
Quella del direttore inglese si impone per rigore morale e chiarezza espressiva, come dimostrano la trasparenza degli impasti e la duttilità di un suono che passa da dolcezze cameristiche di ascendenza mozartiana a ruvidezze timbriche quasi beethoveniane; restituendo in pieno il portato simbolico di questa partitura cosmica, vera e propria summa vocale e strumentale con cui il Settecento chiudeva la sua straordinaria parabola musicale, lasciando già intravedere in controluce lampi e bagliori del secolo nuovo.