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Nella società degli algoritmi servono regole, non allarmi

Gigio Rancilio venerdì 10 novembre 2017
Ci sono parole evocative. Ci sono parole che diventano di moda. Ci sono parole capaci di scatenare fantasie e paure. Tra quelle più (ab)usate in questo periodo ci sono sicuramente «algoritmo» e «big data». Quanto paghiamo, cosa guardiamo, cosa ascoltiamo, cosa leggiamo e persino cosa pensiamo lo decidono (in parte) gli algoritmi, dopo avere scandagliato milioni di dati. Miliardi di dati. I cosiddetti «big data».
Messi insieme, «algoritmo» e «big data» possono fare un sacco di danni. Ma siamo sicuri che siano i «colpevoli» di tutte le nefandezze digitali?
Innanzitutto occorre spiegare cosa sia un algoritmo. Per farlo ci facciamo aiutare dalla Treccani. «Il termine deriva dal latino medievale algorithmus o algorismus, dal nome d'origine, al-Khuwarizmi, del matematico arabo Muhammad ibn Musa del 9° sec». Andiamo avanti. «Nel medioevo il termine indicava i procedimenti di calcolo numerico fondati sull'uso delle cifre arabiche». Ai giorni nostri, invece, quando si usa il termine algoritmo – pur mantenendo un suo valore importante nella logica matematica – lo si lega soprattutto all'informatica, ai computer e a Internet. Non c'è app, motore di ricerca, negozio online o social che non sia governato da un «algoritmo». E nessuno di loro può migliorare le proprie prestazioni (e il proprio business) senza accumulare, studiare e usare (spesso contro gli utenti) milioni di dati. Per non parlare della montagna di altri miliardi di byte che vengono ogni giorno prodotti e raccolti su web, social, app, e-shop e dall'uso di tanti altri strumenti entrati nell'uso quotidiano (dalla carta fedeltà del supermercato alla carta di credito, dal Telepass alle telecamere disseminate nelle strade) in grado di lasciare «tracce elettroniche».
Per spiegare cos'è un algoritmo nel mondo digitale ci facciamo aiutare ancora dalla Treccani. «In informatica l'algoritmo è un insieme di istruzioni che deve essere applicato per eseguire un'elaborazione o risolvere un problema». Tutto qui? Tutto qui. È un insieme di istruzioni. Cinque parole che non fanno paura. Eppure nel linguaggio comune, l'algoritmo è spesso indicato come una sorta di «uomo nero», utile solo a spaventare le persone comuni. Ma noi non abbiamo bisogno di paure. Semmai di spiegazioni, trasparenza e regole condivise.
I «colpevoli» non sono gli algoritmi ma il modo in cui vengono creati e gestiti. Una differenza non da poco. Gli algoritmi (e i big data) sono strumenti. E molti sono molto utili e «buoni». In ogni campo. Il problema – come hanno messo al centro pochi giorni fa al Digit di Prato – è che ormai viviamo nella «società degli algoritmi», dobbiamo solo decidere «come usarli e non essere usati». Ci sono algoritmi che gestiscono le raccolte rifiuti, il flusso dei viaggiatori negli aeroporti, l'energia, il clima, l'informazione (anche nello spazio che viene dato alle cosiddette «fake news»), la politica (vedi il caso Trump e Putin), la comunicazione e il nostro linguaggio.
Il nostro linguaggio? Sì. Come ha spiegato bene Stefania Iannizzotto dell'Università degli studi di Firenze e dell'Accademia della Crusca, «il software si sta letteralmente mangiando le nostre parole». Sta cambiando il senso di alcuni vocaboli e il modo nel quale li usiamo. E qui ricadiamo nel solito punto: davanti ai cambiamenti, anche quelli più veloci e profondi, possiamo spaventarci e indignarci o cercare di fare nostro ciò che diceva Aristofane: «L'uomo saggio impara molte cose dai suoi nemici».
Ciò che conta e che conterà sempre di più, infatti, non è urlare o spaventarci davanti a questi cambiamenti, ma decidere poche, significative battaglie davvero importanti. La più importante, legata agli algoritmi e ai big data, mi sembra sia quella di spingere i governi a renderli il più possibile trasparenti e a mettere dei seri limiti sulle informazioni personali che possono essere raccolte e sull'uso che si può fare. In parole ancora più chiare: bisogna, anche qui, rimettere al centro l'uomo e il rispetto per l'uomo. Un tema che, ben prima dell'avvento di computer, web e social, i cattolici hanno a cuore.