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Nella città di Fritz Lang ogni futuro ha il suo rovescio

Alessandro Zaccuri giovedì 28 dicembre 2017
Al cinema è sempre piaciuto immaginare il futuro. In modo magari ingenuo, come viene da pensare oggi mentre si osservano le fantasmagorie illusionistiche di Georges Mèlies, che con pochi trucchi presi in prestito dal teatro fu il primo – nel 1902 – a portare sullo schermo l'ottimismo fantascientifico del Jules Verne di Dalla Terra alla Luna. Una rappresentazione spensierata e sorridente, che ha il suo emblema nel faccione della Luna colpito in un occhio dal razzo dei nostri eroi.
Con Fritz Lang e con il suo Metropolis
ci si sposta in un territorio molto meno rassicurante, come se nel frattempo il cinema avesse preso maggior consapevolezza delle proprie origini, fino a individuare il punto di convergenza tra magia e tecnica, tra dispositivi meccanici e volontà di potenza. Datato 1927, Metropolis è un film che viene dal passato, ma è anche una delle opere d'arte che più hanno contribuito a forgiare, almeno dal punto di vista visivo, il futuro verso il quale ci stiamo dirigendo. All'altezza vertiginosa degli edifici che compongono la città emersa, abitata da una ristretta élite di ricchissimi industriali, corrisponde infatti lo sprofondo abissale della città sommersa, nella quale il popolo degli operai alimenta incessantemente le turbine deputate alla comune sopravvivenza. La città di sopra conserva al suo interno una cattedrale gotica, memoria di una tradizione ancora non del tutto cancellata, ma la fede resta davvero viva soltanto se si scende ancora più in basso rispetto alla pur sconfinata sala macchine, fino a raggiungere le catacombe dove una donna di nome Maria (una magnetica Brigitte Helm, qui al suo debutto) annuncia la buona novella di un riscatto sempre imminente e sempre rinviato.
Il doppio è la chiave di Metropolis, e il doppio è anzitutto Maria, replicata in forma di robot da Rotwang, uno scienziato meno folle di quanto si potrebbe sospettare e animato in realtà da un umanissimo, quasi struggente risentimento, che si riverbera nella concitata interpretazione di Rudolf Klein-Rogge. Ma la doppiezza, a ben pensarci, è la caratteristica del futuro, che può presentarsi sotto forma di incubo o di sogno. Dipende dal sognatore, certo. Il soggetto del film (alla cui realizzazione contribuì una straordinaria squadra di tecnici, guidata dal caposcenografo Otto Hunte) porta la firma di Thea von Harbou, all'epoca moglie di Lang. La coppia si divise con l'avvento del nazismo, al quale la scrittrice aderì entusiasticamente, mentre il regista non nascose mai la propria opposizione, scegliendo di vivere e lavorare in esilio. Quella descritta da Metropolis è senza dubbio una società totalitaria, come comprende a proprie spese il protagonista maschile Freder (impersonato da Gustav Fröhlich): figlio del magnate che governa la città, Joh Fredersen (l'attore Alfred Abel), il giovane rinuncia ai propri privilegi per liberare la vera Maria dal suo doppio perverso, in un susseguirsi di riferimenti biblici che vanno dalla Torre di Babele ai sacrifici umani pretesi dalla fabbrica-Moloch, dalle aspettative messianiche al temporaneo trionfo dell'apocalittica meretrice di Babilonia.
Questa capacità di evocare l'ambiguità nascosta in ogni promessa di futuro è probabilmente il motivo per cui, più di qualsiasi altro film dell'epoca del muto, Metropolis ha continuato a essere citato, ripreso e perfino rielaborato in contaminazioni anche ardite, come quella proposta nel fatidico 1984 dal musicista Giorgio Moroder (sì, anche Orwell ha imparato qualcosa da Lang). Non è mai troppo tardi per immaginare il futuro, né per decidere in quale città vivere. Anche al cinema, questo sentimento fatto di attesa e di reponsabilità si chiama speranza.