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Nel mondo del Monello, dove la giustizia è un lieto fine

Alessandro Zaccuri giovedì 27 settembre 2018
Si potrebbe scegliere Il grande dittatore (1940), che con i tempi che corrono resta un film quando mai raccomandabile: il potere, la manipolazione che trasforma il popolo in massa, la speranza che da quello stesso popolo si alzi una voce capace di dire la verità. Oppure, sempre in tema di attualità, non sarebbe inopportuno tornare a Tempi moderni (1931), rappresentazione plastica – e irresistibilmente comica e drammatica insieme, come solo la comicità sa essere drammatica – del fenomeno che Antonio Gramsci chiamava "americanismo e fordismo" e che non è diventato meno alienante per essere passato dall'America all'Asia. Con Charlie Chaplin, del resto, non si sbaglia mai, che si tratti di un cortometraggio degli esordi (le gloriose "comiche") o di racconti più complessi, come La febbre dell'oro (1925) e gli altri che abbiamo già ricordato. La soluzione più saggia, però, resta di quella di cominciare dall'inizio, e cioè da Il monello, primo lungometraggio diretto nel 1921 dal grande artista di origine britannica (Chaplin era nato a Londra nel 1889, morì a Corsier-sur-Vevey, in Svizzera, il giorno di Natale del 1977).
Charles Spencer Chaplin, che è come dire Charlie, o meglio ancora Charlot, un personaggio d'invenzione che ci risulta subito familiare, quasi si trattasse di una vecchia conoscenza. Il meccanismo, inspiegabile e irresistibile, è lo stesso che si mette in azione quando in scena entra Arlecchino o un'altra maschera della Commedia dell'Arte, solo che qui non c'è bisogni di artifici, Chaplin e Charlot hanno il medesimo volto, identici sono anche i baffetti che ballano sotto il naso (identici a quelli di Adolf Hitler, tra l'altro, e il dettaglio gioca un ruolo non trascurabile nell'ideazione del Grande dittatore), a fare la differenza è semmai quel po' di biacca adoperata per rendere più pallido il volto del vagabondo. Charlot è un hobo, un senza casa simile a quelli che saranno poi celebrati da Woodie Guthrie, l'Omero di un'America marginale eppure dignitosa, abbandonata a sé stessa ma non arresa alle traversie dell'esistenza. Charlot aggiunge il tocco di un'eleganza paradossale, che resiste a ogni avversità. La bombetta malconcia, la giacchetta striminzita, i pantaloni con il cavallo a precipizio, la canna da passeggio che sembra tollerare qualsiasi maltrattamento fanno parte della livrea che Charlot indossa per affrontare la vita, combattere la fame, sfuggire agli inseguimenti. È lui, inconfondibile, e nello stesso tempo è il protagonista di un'avventura universale, nella quale ciascuno può riconoscersi e ritrovarsi. Charlot non ha storia o, almeno, non ha intenzione di raccontarla. Libero da legami, recalcitra quando l'altro si fa avanti, anche se poi, come rispondendo a una chiamata, dell'altro non può più fare a meno.
Succede così nel Monello, che della parabola di Charlot è la sintesi perfetta. L'avvio rispetta le convenzioni del feuilleton ottocentesco (ma anche della tragedia classica, a proposito di universalità), con la giovane sventurata costretta ad abbandonare il figlio appena partorito. Lei, interpretata da Edna Purviance, diventerà un'attrice famosa e tormentata dal rimorso, mentre il piccolo (Jackie Coogan, forse il più prodigioso degli enfant prodige) crescerà a fianco di Charlot, questo strano padre putativo che di essere padre non aveva alcuna intenzione. Tutto accade qui, nella dura realtà dove detta legge il poliziotto impersonato da Tom Wilson, uno dei tanti indispensabili comprimari che affollano il cinema di Chaplin. Ma Il monello è anche il viaggio verso un altrove abitato dalla giustizia, verso un lieto fine che sappia rimettere a posto il mondo senza pretendere, per questo, di raddrizzare la bombetta di Charlot.