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Nel «labirinto» di Kurosawa la speranza è cercare la verità

Alessandro Zaccuri giovedì 22 marzo 2018
Non capita spesso che un film si identifichi con un nuovo stile di racconto, imponendosi come capostipite e modello. Nella maggioranza dei casi si tratta di svolte pressoché involontarie, e non di rado inizialmente osteggiate dai produttori della pellicola, timorosi di trovarsi tra le mani un prodotto troppo complesso o addirittura cervellotico rispetto ai gusti del pubblico. Il quale, invece, si dimostra molto più curioso e intraprendente di quanto si voglia immaginare. Da principio, infatti, anche Rashomon del giapponese Akira Kurosawa non ebbe vita facile. Eppure da quasi settant'anni (il film porta la data del 1950) basta dire "è come in Rashomon" per capirsi subito: stiamo parlando di una storia riportata da diversi punti di vista, attraverso una serie di testimonianze contraddittorie, parziali, spesso addirittura interessate. Se davvero vuole sapere com'è andata, lo spettatore deve assumersi la responsabilità di raccogliere tutti i pezzi del rompicapo e di ricomporli in un quadro d'insieme che sia coerente sul piano razionale e credibile nella dinamica dei sentimenti e delle psicologie.
Kurosawa, in realtà, non è l'inventore di questa struttura narrativa. Per la sceneggiatura del film il regista si ispirò ai racconti, peraltro molto conosciuti in Giappone, di Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), il grande scrittore frequentemente avvicinato a Kafka per la profonda inquietudine esistenziale che caratterizza la sua opera. Morto suicida, Akutagawa fu autore di storie che rasentano i territori del nichilismo e della disperazione, ma anche di uno studio su Cristo, L'uomo d'Occidente, che getta una luce imprevedibile sulla sua parabola umana e letteraria. Più che al racconto omonimo (cupa descrizione di una delle porte che si aprivano sulle mura della Kyoto medievale), il Rashomon cinematografico rimanda a un'altra novella di Akutagawa, Nel bosco, resoconto a più voci di un misterioso omicidio consumatosi appunto in un angolo della foresta. Di sicuro c'è soltanto che il samurai Takehiro – impersonato da Masayuki Mori – è stato ucciso dal famigerato brigante Tajomaru, al quale dà volto sullo schermo il celebre Toshiro Mifune. Sembra di capire che all'origine del fatto di sangue ci sia la moglie di Takehiro, la bella Masako (l'attrice Machiko Kyo), ma non è chiaro se la donna abbia veramente subìto la violenza di cui il malvivente è accusato. Ognuno riferisce l'accaduto a modo suo e nessuno appare sincero fino in fondo, neppure il taglialegna interpretato da Takashi Shimura, che pure per un momento si presenta come il solutore dell'enigma, salvo poi trincerarsi a sua volta in una sostanziale ritrattazione. Solo l'ombra della vittima, evocata attraverso un incantesimo, è in grado di rivelare la verità, ammesso e non concesso che ci si possa fidare delle dichiarazioni di un'anima in pena.
Il meccanismo messo in moto da Rashomon è straordinariamente delicato e insidioso. Può esaurirsi in un virtuosismo narrativo fine a sé stesso, per cui le differenti variazioni del medesimo episodio entrano sistematicamente in conflitto tra loro, trasmettendoci la sensazione che di nessuna storia, e tanto meno di questa alla quale stiamo assistendo, si possa mai conoscere la versione definitiva. Ma c'è un altro percorso che permette di muoversi nel labirinto di specchi allestito da Kurosawa: non una rinuncia alla verità o, peggio, una dichiarazione di inesistenza della verità stessa, ma un'interrogazione ostinata, la ricerca continua e coraggiosa di un punto fermo che, proprio perché sfuggente, ci risulta desiderabile e necessario. Non per niente, l'approdo finale del film è rappresentato da una nascita inattesa e carica di speranza. Un evento e invincibile, proprio com'è la vita.