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Magistrati e manifestazione del pensiero. Quando è utile ridirsi l'ovvio

Renato Balduzzi giovedì 12 ottobre 2017
Ritorna, con la consueta grande attenzione mediatica, il tema della libertà di manifestazione del pensiero dei magistrati e dei suoi limiti, con specifico riferimento alle loro opinioni "politiche" e in particolare a quelle espresse nelle diverse agorà cartacee e televisive, oltre che attraverso i social network.
Cardine della vita democratica e sua "pietra angolare" (come si espresse una risalente sentenza della Corte costituzionale, la n. 84 del 1969; si v. anche la n.126 del 1985), la libertà garantita dall'art. 21 Cost. incontra, per talune categorie di pubblici funzionari, limiti connessi ai doveri cui sono assoggettati e in particolare, per i magistrati, all'esigenza che non vengano turbate la realtà e l'apparenza della loro posizione di indipendenza e di imparzialità (in tal senso, anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, nella causa Di Giovanni contro Italia del 2013).
Si tratta di limiti che, oltre a dover essere previsti per legge, devono ricollegarsi esplicitamente a principi costituzionali o, almeno, dagli stessi essere "ricavabili mediante la rigorosa applicazione delle regole dell'interpretazione giuridica", e che trovano, in ultima analisi, la loro ragione d'essere nella necessità che il cittadino sia "rassicurato sul fatto che l'attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica" (rispettivamente, Corte cost., sent. n. 9 del 1965 e n. 224 del 2009).
È certo buona cosa che i magistrati intervengano sulle grandi questioni della legalità e della corruzione e che non vengano lasciate sole, nella diagnosi e nel ripudio delle medesime, le autorità istituzionali e morali, dal presidente Mattarella a Papa Francesco.
Parimenti, sarebbe buona cosa che tali "prese di parola" fossero sempre accompagnate da una grande consapevolezza dei limiti interni alla posizione e al ruolo che i magistrati ricoprono: per essi il generale dovere di adempimento delle funzioni con disciplina e onore, di cui all'art. 54 Cost., sembra potersi declinare come sobrietà e autolimitazione ("disciplina"), oltre che, al pari di tutti coloro ai quali sono affidate funzioni pubbliche, come personale disinteresse ("onore").
Ovvietà?
Se è vero che certi principi vengono naturalmente e spontaneamente al pensiero (e dunque sono "ovvi", secondo l'etimo latino), è altrettanto vero che essi non si presentano con la medesima spontaneità e naturalezza nell'esperienza pratica: ancora una volta, dunque, ridirsi l'ovvio potrebbe essere utile.