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Ma come può un adolescente amare e sentire propria la letteratura italiana?

Alfonso Berardinelli sabato 6 novembre 2010
Capisco benissimo che cosa intende Franco Brevini nel suo saggio La letteratura degli italiani (Feltrinelli) quando dice, nel sottotitolo, che la nostra letteratura «molti la celebrano e pochi la amano». Se facessi un esame di coscienza autobiografico, direi che «ho capito tardi di essere italiano» (questo l'ho già scritto) ma ho invece capito subito, prestissimo, che non amavo la letteratura italiana e che dai tredici ai vent'anni avevo soprattutto bisogno di altro: per esempio di narratori russi e americani, nei quali il peso della tradizione sembrava assente.
Quale adolescente ama e sente propria la letteratura italiana? Colpa della scuola e degli insegnanti. Ma colpa anche di certe caratteristiche generali che hanno dominato per secoli nella nostra letteratura: il precoce classicismo e formalismo e quella che Brevini definisce «agorafobia», paura dello spazio aperto e della vita associata, che affligge la nostra letteratura.
Brevini è oggi il maggiore studioso di poesia dialettale e si capisce che a lungo andare il conflitto sia esploso in lui in senso (perché no?) "populistico". Perciò alla letteratura (in lingua) italiana Brevini contrappone una più vivace, realistica, onesta e popolare letteratura degli italiani, scritta cioè da autori italiani, ma in dialetto.
Il problema riguarda la nostra instabile identità collettiva. Capire perché noi italiani amiamo troppo o troppo poco noi stessi e perché difettiamo di autocoscienza, significa capire le insufficienze etiche e conoscitive della nostra letteratura, sia in lingua che in dialetto. Non si tratta però di contrapporre lo stile comico a quello sublime. Fondamentale è la «mescolanza degli stili» studiata da Auerbach, che ha in Dante uno dei suoi massimi esempi e che Petrarca ha eliminato. Tornano così i problemi posti da De Sanctis e ripresi da Gramsci. Ma negli ultimi due secoli ci è mancato sia il teatro che (salvo eccezioni) il romanzo: cioè la rappresentazione seria del quotidiano. Una lacuna culturale di cui ancora soffriamo.