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Lo sport da solo non poteva prendere una decisione

Italo Cucci martedì 10 marzo 2020
Giocare o no? Porte chiuse o porte aperte? Godersi i gol di Dybala o no? Soffrire per la squadra del cuore che rischia la retrocessione o augurarsi uno stop ufficiale che magari la salva? E lo scudetto chi lo vince? La Juve ch'è già prima splendida splendente? E chi ci darà una risposta decisa, anche se sgradita? Forse il Ministro Tentenna che ha una verità al giorno? Ho anticipato mille chiacchiere precisando che non esistono decisioni “sportive” - Lega, Federazione, Coni - ma solo governative, l'interesse pubblico non può dipendere da Dal Pino, Gravina o Malagò; e neppure da un ministro senza portafoglio nè competenza come tanti opinionisti: solo dal governo, e da un decreto legge. E per fortuna in zona Cesarini c'ha pensato il Premier Conte che ha capito la gravità del momento. Ai miei figli, ai colleghi e agli amici più giovani ho detto: questa peste è peggio della guerra. Estate 1944. Fuga dal paese natale, sfollati in campagna, mitragliamenti, bombe. Poi un altro paese, un'altra casa. E i fratelli più grandi si chiedono ancora se continuerà a vincere il Torino di Vittorio Pozzo, se e quando tornerà a comandare la Juve come ai tempi di Carcano... Nella piazza principale di Poggio Berni, un paese romagnolo sulla Linea Gotica, giocavamo a pallone a un metro dai panzer tedeschi e quando un pallone scappava un soldato ce lo restituiva con un calcio. Ridendo. Forse pensando che lo stesso gesto l'avrebbe fatto a casa, con un fratellino di cinque anni. Come me. In casa non s'ascoltava Radio Londra ma le cronache sportive non erano proibite, e qualche campionato - a Nord, a Sud, anche vicino a noi - si giocava. Poi qualche giorno al buio, quando le battaglie aeree o i confronti ravvicinati a cannonate ci costringevano a scendere nel rifugio, una grotta spaziosa dove ci portavamo la palla strappando un sorriso agli adulti impauriti. La palla: non ho conosciuto un altro strumento cosí rallegrante, in qualsiasi situazione; dunque conosco bene la paura, e me la vedo intorno, perché non potersi toccare, temere anche un sospiro, non ti dico uno starnuto, un colpo di tosse, vuol dire esserne prigionieri, niente di meno; e il virus fa più paura di una guerra annunciata che ha i suoi segni, seppur tecnologica, mentre cosí tremi, t'inquieti, solo per segnali incerti, avvertimenti, minacce. Cosa sarà domani. Da giorni e giorni ormai ognuno dice la sua, le opinioni si sprecano, tutti indovinano tutto. O niente. Cosí siamo arrivati al punto: giocare o smettere? Leggetevi il decreto apparso sui vostri tablet e cellulari come se fosse un pessimo scherzo di facebook, scritto proprio cosí, come uno scherzo macabro, roba da Iene. E invece è tutto vero. Il campionato, se è vero che ha buon diritto di esistere, può chiudere come stanno chiudendo gli alberghi, i ristoranti, le scuole, le chiese. Già, le chiese. Quelle no, quelle le terrei sempre aperte. Finí la guerra. Lasciammo i rifugi, il paese ospitale, tornammo verso Rimini. Arco d'Augusto, Anfiteatro Romano. Il Tempio Malatestiano semidistrutto. Ci aspettava la chiesa di Santa Rita, la Santa degli Impossibili. Il sorriso tornò col piatto pieno, non con il calcio. Anzi. Stavamo riprendendoci il gioco, e morí il Torino... Dai. Prepariamoci a tornare. Senza paura del virus.