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Lezioni di burocrazia all'università, ma non è un corso di laurea

Alfonso Berardinelli venerdì 9 giugno 2017
Soffrendo personalmente di un'acuta, idosincratica insofferenza per ogni forma di rapporto burocratico, ho letto con molto interesse l'articolo della filosofa ungherese Agnes Heller (allieva di Lukacs) Burocrazia, il vero nemico delle nostre università, uscito nell'ultimo numero (2/2017) di “Vita e pensiero”. Si tratta del punto dolente o, meglio, del morbo pseudorganizzativo e di controllo parassitario più avvilente e vampiresco della nostra vita sociale di oggi. Ogni nostra attività è infestata da un'invasiva prassi burocratica. Il maggiore sociologo della modernizzazione e della razionalità organizzativa, Max Weber, già un secolo fa puntò il suo sguardo sulla burocrazia in quanto irrigidimento specialistico e gerarchico delle funzioni che dovrebbe aumentare l'efficienza operativa, ma che poi finisce invece per crescere su se stesso producendo una “regolamentata inefficienza” e un agire formale, astratto, apparente. Oggi, dice la Heller, in una società che non è più quella borghese classica ma è una società di massa, «il compito delle università ha smesso di essere quello di preparare gli studenti a una vita operosa e onesta». La sola cosa che conti è ormai il tipo di istruzione più adatto all'inserimento degli studenti nella gerarchia sociale in vista di una precisa funzione. Queste funzioni però sono esercitate non per reale capacità individuale, ma in virtù di diplomi e certificati che dimostrano (burocraticamente!) il possesso di attitudini solo ipotetiche. «Negli ultimi trenta o quarant'anni» osserva la Heller «abbiamo assistito alla crescita senza precedenti della burocrazia nel sistema universitario come in molte altre istituzioni culturali. Si è calcolato che mentre fino a trent'anni fa le spese universitarie in burocrazia erano il 40% dei fondi disponibili, oggi se ne spendono in burocrazia il 60%». Le tasse universitarie in costante aumento vengono investite per il mantenimento della struttura amministrativa e non per finanziare studi e ricerche: «Il compito principale dei docenti non è più di insegnare, ma di compilare centinaia di moduli che documentino la propria attività». La razionalizzazione organizzativa produce cioè irrazionalità, spreco di tempo e di energia. Inoltre il controllo burocratico controlla solo dati numerici di presenza, non la qualità culturale di tale presenza. Insomma: l'organizzazione della cosiddetta “alta cultura” è anticulturale.