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Lettera a un figlio

Marina Corradi martedì 15 marzo 2022
Ti ho aspettato per nove mesi. Come fosse ieri ricordo il primo tuo movimento in me, quasi impercettibile, come il fluttuare di un piccolo pesce. E il travaglio, in una notte gelida come questa. Era il 2 di marzo. All'alba il tuo primo vagito, mentre il cielo della steppa schiariva.
La notte piangevi, ed ero sempre io a svegliarmi. (Le donne, per quel pianto, hanno un udito più fine). Ti ho tenuto per le braccia quando imparavi a camminare. Poi, il trottare del tuo piccolo passo veloce nel corridoio lo sento ancora, nel silenzio di questa casa. E la prima bicicletta, per Natale; e finalmente, quando la neve in cortile si è sciolta, hai imparato a pedalare. Ginocchia sbucciate, notti con la febbre, la tua mano che esitante tracciava le prime lettere su un quaderno - proprio qui, su questo stesso tavolo in cucina.
Sei diventato più alto di tuo padre, un gigante buono. Un giorno, in paese, ti ho intravisto mano per mano a una ragazza. Allora ho sognato, per un attimo, un bambino che ti somigliasse.
A vent'anni sei partito, soldato. Mi rassicuravi col tuo sorriso: non vedi, mamma, come sono forte?
Ma, più niente. Per settimane. Tuo padre: “Tranquilla”. Io, però, già sapevo. Un telegramma, ieri, da Mosca: “Autorizzazione all'inumazione”. Nient'altro. Non una parola di dolore, per te. Che eri, e sei tornato per sempre, il mio bambino.