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La violenza sui social, la storia di Marco C e le colpe di tutti noi

Gigio Rancilio venerdì 5 luglio 2019

Quanti Marco C. esistono in Italia? Penserete: chi è Marco C.? Il cognome lo omettiamo volutamente, perché – come si usa dire – di questa storia ci interessa «il peccato e non il peccatore». È un uomo di 40 anni che si definisce «uno tranquillo, odio la violenza e i soprusi, mi piace la musica e l'Arte». Insomma, non è così diverso da tanti di noi. Eppure due anni fa augurò una pallottola a un politico di primo piano. Cosa spinga una persona a una simile trasformazione è (in parte) ancora materia di studio. Si dice che protetti da uno schermo alcune persone si trasformino e arrivino a scrivere e fare cose che in pubblico non direbbero e non farebbero mai (i famosi leoni da tastiera). Quando hanno chiesto a Marco C. le ragioni del suo inqualificabile gesto, ha risposto: «Era un periodo della mia vita non positivo. Ed ho usato la rete in maniera sbagliata. Prometto di non farlo più».
Tempo fa avremmo magari scritto che è stato preda di un «raptus». Ma, secondo gli psichiatri, i raptus non esistono. Quindi?
Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano, parlando della violenza che ci sta corrodendo ha spiegato: «La nostra società ha praticamente censurato i concetti di finitezza e morte da un lato, e di crudeltà e male dall'altro». E non è finita qui: «La violenza è una spirale che si autoalimenta».
Fateci caso: non c'è aggressione verbale sui social che non generi altra violenza, uguale o peggiore. Anche le pagine e i profili di tante realtà cattoliche sono infettati da questo virus. Nessuno si salva. Nemmeno Papa Francesco, oggetto di una cattiveria social inaudita. Persino sotto i suoi tweet ufficiali ci sono commenti violenti e bestemmie.
Torniamo alla storia di Marco C. Quello che non abbiamo ancora detto è che il suo post di scuse si chiude così: «Per tentare di riparare, seppur parzialmente, sono pronto a prestare servizio presso una associazione che si occupa dei diritti dei più deboli». Bel gesto. Peccato che queste parole di ravvedimento sono arrivate dopo due anni e non spontaneamente, ma sono frutto di una condanna e di un patteggiamento.
Se pensate che Marco C. non c'entri nulla con le vostre vite, vi sbagliate. Tutti conosciamo un Marco C. (e qualcuno di noi lo è). E nei suoi confronti il nostro giudizio cambia a seconda di quanto gli siamo «vicini» (come dimostrano anche i 482 commenti arrivati finora al suo post su Facebook dove chiede scusa). Se è un amico o un parente, il suo gesto da denuncia (perché augurare la morte ad una persona è da denuncia) diventa «un momento buio che può capitare a tutti». Se la vittima è di una parte politica che non sopportiamo, «quella si dovrebbe vergognare: ti sta usando». Se siamo stufi di imbatterci ovunque (e non solo sui social) in gente aggressiva e violenta, Marco C. «è solo un vigliacco». Se invece ci è simpatico, «il suo è un ottimo esempio. Perché non è facile chiedere scusa».
Quest'ultima cosa è verissima: una delle azioni che facciamo più fatica a compiere oggi è «chiedere scusa». Ma c'è qualcosa di ben peggiore: il fatto che spesso non ci rendiamo nemmeno più conto della gravità delle nostre azioni; di ciò che facciamo, scriviamo e diciamo. Una serie di mancanze della quale di solito accusiamo i ragazzi ma di cui siamo più colpevoli noi adulti. Perché anche se siamo abilissimi a trovare mille giustificazioni per le nostre anche gravi omissioni, il fatto di essere adulti (e quindi «esempi» e in teoria «maturi») ci rende più colpevoli.
Per Walter Quattrociocchi, ricercatore all'Università di Venezia, «i ragazzi si salveranno da questo odio con l'ironia. Perché per loro i social sono un gioco». Per tutti gli altri (molti adolescenti compresi) il problema resta. E i primi ad alimentarlo sono anche alcuni politici.
P.S. La vittima denunciante era Laura Boldrini. Ora che lo sapete, quanto è cambiato il vostro giudizio su questa storia?