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La vera speranza non può fare a meno della fede: Leopardi insegna

Alfonso Berardinelli sabato 27 settembre 2008
Credo che fede, speranza e carità siano una cosa sola considerata tre volte, da tre punti di vista. Per questo mi sono chiesto come sia stato possibile a Torino, al Festival della Spiritualità, occuparsi quest'anno della speranza, indipendentemente da carità e fede. Una speranza senza fede è certo possibile: ma si riduce a una semplice emozione fiduciosa, a un'inclinazione del carattere, a un derivato dell'ottimismo ideologico. Senza un fondamento di fede nel rapporto necessario fra Dio e mondo, la speranza resta un oscillante dato psicologico o una disposizione a credere che domani sarà meglio di oggi e che il progresso e il miglioramento della condizione umana sono più probabili e razionali del regresso e del peggioramento. Perciò a Torino, da quanto leggo nel resoconto di Marco Politi sulla "Repubblica", è stato coerente Eugenio Scalfari, «l'uomo che non credeva in Dio» (secondo il titolo del suo best seller Einaudi) a non dire niente della speranza e del futuro. Chi non crede in Dio non può onestamente avere nessuna speranza razionale nel futuro della Storia umana lasciata a se stessa.
Se non c'è nozione certa di Dio (fede) e se non c'è un agire conseguente (carità, amore attivo per il creato) la speranza diventa come la dea pagana chiamata Speranza: una bella ragazza con una promettente cornucopia sotto il braccio e un mazzo di fiori in mano, che incoraggia gli umani ad aspettarsi abbondanza e felicità. Le favole antiche erano realistiche, dichiaravano i propri limiti. Ma la speranza di cui si parla in un Festival della Spiritualità dovrà avere qualcosa a che fare con lo Spirito, cioè con qualcosa che nella materia non coincide con la materia e trascende le sue metamorfosi. Se c'è fede in Dio, arriva anche la speranza. Altrimenti resta la fede in quel dio buono che sarebbe il futuro. Ma allora ha ragione Leopardi: non c'è ragione di crederci, e la speranza c'è solo quando c'è il buonumore.