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La tentazione distruttiva del Novecento ha il volto di Dioniso

Cesare Cavalleri mercoledì 27 settembre 2017
Dioniso e l'ebbrezza della modernità è il titolo del bel libro di Giuseppe Goisis, emerito di Filosofia politica a Ca' Foscari-Venezia, che ha un sapore di testamento pedagogico, sia pure provvisorio, come si intuisce dalla Prefazione di Luigi Perissinotto (Mimesis, pagine 166, euro 16,00).
Si tratta di sei saggi su politica e società, che vanno dalla connessione tra Savonarola e Machiavelli – cioè tra polo profetico e polo politico –, all'essenzialità dello Stato, pur coi rischi d'oppressione, ad alcune precisazioni sull'amore per la pace di Simone Weil, ad appassionate note sull'educazione alla politica, con un finale aperto alla speranza.
Il saggio quasi eponimo è “Il ritorno di Dioniso. Il totalitarismo fra ebbrezza movimentista e ordine del terrore”, e parte dal dialogo platonico Le leggi dove il filosofo scopre la politica come “incantesimo”, come il canto di una brava nutrice, capace di sopire l'irrequietudine dei bambini e addormentarli: «Analogamente agisce il vino, dono supremo di Diòniso: vietato ai bambini, esso diventa prezioso coadiuvante per i maturi e gli anziani, in modo che escano dalla loro tristezza, e partecipino alle danze e ai cori, che fanno convergere lo spirito dei cittadini».
Goisis rintraccia elementi dionisiaci nei movimenti politici che sfociarono nei totalitarismi del Novecento, secolo marchiato a fuoco dall'esperienza devastante della Prima guerra mondiale, “la Grande guerra”.
«Si tratta – spiega Goisis – di uno spirito dionisiaco non purificato dall'orfismo: c'è una parentela fra il dionisismo e l'orfismo, collegandosi ambedue nell'idea di sacrificio; ma l'orfismo trasmuta lo spirito dionisiaco, e lo conduce verso l'alto, verso l'anima, mentre il dionisismo può mettere al centro una componente decisamente distruttiva». Finita l'ebbrezza dionisiaca del movimentismo novecentesco, appare il volto del Totalitarismo, una volta raggiunto il monopolio dei poteri.
Orwell ha definito il Totalitarismo come una forma di prevaricazione dello Stato nei confronti della società civile, con lo sfumare conclusivo delle distinzioni fino al compenetrarsi fra Stato e società. Gli studiosi hanno identificato sei elementi costitutivi del Totalitarismo:
l'ideologia ufficiale che fornisce un quadro sistematico di valori e orientamenti; il monopartitismo che si rispecchia nel leader monocratico, nuovo idolo a cui le folle tributano liturgie di massa; la pervasività della polizia politica, che scruta anche il privato dei cittadini; il completo controllo dei mezzi di comunicazione; il monopolio delle forze armate e delle forze dell'ordine; infine, ma non certo per ultimo, la centralizzazione dell'economia.
Al giorno d'oggi, almeno in Occidente, non sembriamo minacciati dal Totalitarismo politico, eventualità peraltro da non escludere. Viviamo però in un Totalitarismo culturale sempre più invasivo: l'ideologia del “politicamente corretto” non lascia spazio alle alternative, ha il controllo poliziesco sulle opinioni, incoraggia il culto dei leader, domina l'accesso ai mass media, e l'economia – tra direttive europee e strategie delle multinazionali – è sempre più centralizzata. Non siamo ancora al Totalitarismo, ma la “dittatura del relativismo” denunciata dal card. Ratzinger nell'omelia della Messa pro eligendo pontifice, sulla soglia del conclave da cui sarebbe uscito come Benedetto XVI (2005), è sempre più assillante.
Goisis, che all'attività accademica ha sempre affiancato l'impegno nel Centro studi diritti dell'uomo (Cestudir), confida in «un'educazione alla politica che si distanzi dal semplice addestramento, da quel dressage che sembra il vero sogno segreto della “tarda modernità”».
Il richiamo alla speranza è affidato a una frase di Maria Zambrano: «C'è una speranza che non spera in nulla, che si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa forza dal vuoto, dall'avversità, dall'opposizione, senza per questo opporsi a nulla e senza lanciarsi in alcun tipo di guerra. È la speranza che crea stando sospesa, senza ignorarla, al di sopra della realtà, quella che fa emergere la realtà ancora inedita, la parola non detta: la speranza rivelatrice».