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La straniante «prosa d’arte» di Bacchelli

Cesare Cavalleri mercoledì 25 marzo 2020
Questi giorni forzosa–mente domiciliari per via del Covit–19 sono propizi per mettere ordine negli armadi, fare spazio in biblioteca, dedicarsi a piccole riparazioni. Fra l’altro, io ho rilegato un libro squinternato che da tempo mi guardava con rimprovero dallo scaffale (ho una buona manualità, e la rilegatura è un hobby utile e distensivo): Il diavolo al Pontelungo, di Riccardo Bacchelli. Di questo «romanzo storico» avevo ricordi imprecisi, ma ritrovandomelo ben ricucito con copertina vintage in tela rossa, mi sono sentito in dovere di rileggerlo. La mia è la seconda edizione (1929) del romanzo uscito l’anno prima ed è considerato al secondo posto, dopo Il mulino del Po, nella sterminata bibliografia di Bacchelli. Questa seconda edizione, sempre della Casa Editrice Ceschina, ha un’introduzione dello stesso Bacchelli, in risposta all’articolo apparso nel dicembre 1928 sulla rivista “Nosotros”, di Buenos Aires, in cui Luigi Bakunin, nipote di Michele, protestava per il trattamento riservato da Bacchelli al nonno, protagonista del romanzo. Il dottor Luigi Bakunin sostiene che il nonno «sacrificò tutto alla sua idea, e Bacchelli ha buon gioco nel replicare: «Io nego che questo sia un merito, quando l’idea è sbagliata». Insomma, «questa mistica idea della Società spontanea, la fede nello stato di natura, partorì nel cervello slavo di Bakunin una sorta di nirvana materialistico». Bacchelli si difende di aver scritto «un romanzo storico, non una storia romanzesca. Non sono due cose che si incontrano, ma che divergono, anzi. E, se vi son riuscito, mi ha guidato non meno fantasia di romanzo che rigore di storia». La risposta, comunque, «tocca al lettore», e dunque leggiamo. Le prime pagine hanno un effetto straniante. Il diavolo al Pontelungo è stato scritto 93 anni fa, e li dimostra tutti. Ecco l’incipit del capitolo XIV: «Era una mattina primaverile da allargar di quattro spanne i polmoni» (quattro spanne?); oppure: «Tirò fuori un coltellaccio a serramanico, che gli scattò in mano, aprendosi quasimente da solo» (quasimente?). Ma non è questione di frasi o di parole, è proprio la lingua in quanto tale a suonare stonata, è la lingua della «prosa d’arte» che non è più prosa e non ancora poesia. È giusto che ci sia differenza tra la lingua parlata e la lingua scritta, ma c’è modo e modo di scrivere in lingua: la «prosa d’arte» è una terza lingua a sé, è la lingua dell’elzeviro, e bisognerebbe finalmente scrivere un saggio sui guasti prodotti dall’elzeviro sulla lingua scritta e parlata. Man mano, però, che si procede nella lettura del Diavolo a Pontelungo, si finisce per essere conquistati dalla vicenda e ammaliati dalla lingua. Forse per la sottile e disincantata ironia che scorre di pagina in pagina, forse perché il protagonista, Michele Bakunin, è simpatico nella sua scervellaggine, nell’utopismo teorico che non cancella la sostanza di brava persona. Il romanzo lo si legge come una fiaba, ed è fiaba fin dal titolo che riprende la favola popolare di un arciprete che avrebbe incontrato il Diavolo, appunto, a Pontelungo, nel bolognese. Caro Bacchelli, hai vinto!