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La storia ha bisogno di pianisti che continuano a suonare

Alessandro Zaccuri giovedì 30 agosto 2018
Non si può parlare dell'uno senza ricordare anche l'altro. Uno è Via col vento, di cui ci siamo occupati la settimana scorsa. L'altro è Casablanca, ma l'ordine potrebbe essere invertito. Critici e appassionati dibattono da sempre su quale dei due film rappresenti il cinema nella sua interezza: il melodramma storico di Rossella O'Hara e Rhett Butler o il romanticismo in presa diretta di Rick e Ilsa? I primi due non riescono ad amarsi, anche se potrebbero; gli altri – i protagonisti di Casablanca – si amano alla follia, eppure non possono. Entrambi i film, però, sono molto più della storia d'amore che pure raccontano. Sono documenti politici, sono espressione di estetiche differenti. Via col vento ci si presenta in un technicolor tanto sontuoso da apparire a volte sfacciato, laddove il bianco e nero di Casablanca conquista con gli anni una freddezza che gli conferisce ulteriore fascino.
Difficile scegliere, a questo punto. Ma non è detto che scegliere sia necessario. Fin dalle origini il cinema è molteplice, a volte contraddittorio. Non sempre lo spettatore è chiamato a una scelta di campo, neppure nei casi – come questo – in un cui l'aut aut pare imporsi con nettezza. C'è da ricordare, se non altro, che tra i due film corre un discrimine niente affatto irrilevante. Nel 1939, al debutto di Via col vento, la guerra in Europa è appena iniziata e gli Stati Uniti possono ancora illudersi di restarne fuori. Nel 1942, quando il regista Martin Curtiz dirige le riprese di Casablanca, il conflitto ha ormai assunto dimensioni globali e il pubblico americano non può fare a meno di interessarsi a quel che accade sulle sponde del Mediterraneo, nella fattispecie lungo le coste del Marocco, dove l'avventuriero democratico Rick Blane (c'è bisogno di dire che lo intepreta Humphrey Bogart?) fa mostra di essersi ritirato a vita privata. In realtà il suo caffè, il Rick's di Casablanca, è un crocevia di cospiratori e fuggitivi, tenuto d'occhio dalle forze d'occupazione. Il locale era già il baricentro della dimenticabile commedia da cui il film fu tratto e del quale il Casablanca finale conserva solo qualche vaga traccia. Molto fu lasciato all'improvvisazione, molto agli spunti forniti dalla cronaca bellica. Una delle caratteristiche più sorprendenti di Casablanca, a pensarci bene, è proprio questa: racconta una storia senza tempo pur essendo profondamente radicato nella storia del suo tempo.
Da una parte i nazisti e i loro alleati, i collaborazionisti francesi di Vichy; dall'altra il cittadino del mondo Rick, che all'improvviso si ritrova davanti la donna amata, perduta e mai dimenticata. Ma intanto Ilsa (sì, è Ingrid Bergman) ha sposato l'eroico leader antifascista Victor Laszlo (l'attore Paul Henreid), al quale è legata da un fortissimo vincolo morale. Il dilemma che ne deriva è il vero baricentro del racconto: non la ragion di Stato che soffoca i sentimenti, ma il manifestarsi di un dovere più grande o almeno più impellente perfino della passione. Tutto nel film ha il tono dell'immediatezza, ma al di sotto di una trama tanto accessibile si intrecciano temi di estrema raffinatezza. Nel suo saggio dedicato appunto a Casablanca (in Italia è edito da Bollati Boringhieri) l'antropologo Marc Augé richiama l'attenzione, per esempio, sul ruolo svolto dai personaggi secondari. Più ancora del capitano Reanult (lo impersona Claude Rains ed è il nemico con cui Rick finirà per stringere "una bella amicizia"), a colpire è la funzione assegnata a Sam (Dooley Wilson), il pianista che ha il compito di suonare ancora e ancora la canzone dell'amore impossibile. Sembra una comparsa, ma in realtà è un testimone. E senza testimoni nessuna storia potrebbe resistere al tempo.