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La sorpresa di camminare in un mondo che vuole correre

Fabrice Hadjadj domenica 5 febbraio 2017
Si può veramente guadagnare tempo? Correre, per esempio, è un progresso rispetto al camminare? È come camminare, ma più in fretta? Dopo avere spintonato un bambino schiacciandogli la faccia contro il gelato e poi maledetto una vecchia perché andava troppo lentamente, forse si può avere qualche dubbio. Il corridore ha un rapporto con il mondo diverso dal camminatore. Il suo mondo non è quello di una contemplazione né di una attenzione a ciò che lo circonda. Egli costituisce la realtà in due generi che stanno in relazione soltanto con la sua velocità – ciò che la favorisce, ciò che la rallenta. Ha occhi solo per la sua performance e per la linea del traguardo. Sto per perdere il treno? Mi lancio nella corsa, e più il mio ambiente naturale perde i suoi contorni, più si trasforma nel fumo che fugge all'indietro e lascia vedere solamente il corridoio libero di una pista, meglio è. Che non si parli in quel momento di incontrare qualcuno, nemmeno un amico, soprattutto un amico! Non è questo un giudizio di valore. La corsa risale alla preistoria. L'uomo delle caverne si è accorto abbastanza presto che era meglio che camminare quando era inseguito da una tigre dai denti a sciabola o da una zia irsuta che voleva maritarlo a una signorina non del tutto discesa dallo stadio australopiteco. Constato solamente che la corsa non è un miglioramento della marcia, ma un passaggio a qualcos'altro. O, più in generale, che il cambiamento di velocità, che sembra a prima vista un cambiamento quantitativo, finisce in verità per essere un cambiamento qualitativo, se non addirittura un cambiamento di natura. Danzate il rock e fate roteare il vostro partner: aumentando la velocità la danza si trasforma in una centrifuga. Accarezzate ora il vostro partner: accelerando il movimento della mano, la carezza lascia posto alla frizione e il rischio di un'ustione diventa concreto.
La cosiddetta “lettura veloce” rappresenta bene questo fenomeno. Non perfeziona la lettura. La snatura. Leggere, del latino legere, vuol dire cogliere, raccogliere un testo scritto in modo da riportarlo alla parola viva, ascoltare una voce tutta interiore, con la sua cadenza, la sua intimità, il suo appello… La “lettura veloce” ignora questo raccoglimento: con il suo defilé diagonale, essa spizzica, estrae solo ciò che la interessa e sottrae tutto il resto, trattiene del discorso solo la notizia già attesa. I testi finiscono per adattarsi ad essa. Si riducono a notifiche. Abbandonano ogni pensiero e ogni poesia…Succede qualcosa di simile col produttivismo agricolo. Quando si fa crescere l'erba spingendola, si aumenta forse il rendimento, ma si cambia attività: non c'è più la campagna – un'agricoltura in rude consonanza con una terra e con un paese, che dunque implica una certa partecipazione cosmica; c'è lo sfruttamento agricolo – un'agricoltura in stretta relazione con l'industria innovativa, che impone un'iperreattività tecnologica e mercantile, dove i cataloghi di prodotti chimici e di sofisticati macchinari prevalgono sul susseguirsi delle stagioni. Nel 1939 Saint-Exupéry in Terra degli uomini fa l'elogio dell'aereo, «strumento che ci ha fatto scoprire il vero volto della terra». Con la sua agilità, la sua altezza, la sua traiettoria rettilinea, lontana dalle curve della strada che sposano i meandri del terreno, la macchina volante dà coscienza dell'unità del pianeta e della relatività delle frontiere. Nel 1944, Saint-Exupéry si ricrede. Nell'ultima lettera, scritta alla vigilia della sua scomparsa nel Mediterraneo rievoca un'esperienza di quattro anni prima: «Nell'autunno del 1940, di ritorno dall'Africa settentrionale dove ero emigrato col gruppo 2/33, riposta in qualche polverosa rimessa la mia macchina esangue, venni a scoprire il carretto e il cavallo. E con essi l'erba dei sentieri, le pecore e gli oliveti. Quegli oliveti avevano un compito diverso da quello di battere il tempo dietro ai vetri a 130 chilometri all'ora. Si mostravano nel loro ritmo vero, che consiste nel fabbricare lentamente le olive. Le pecore (…) ridiventavano vive. Facevano pallottole di sterco genuino e fabbricavano lana autentica. Ed anche l'erba aveva un senso, poiché la brucavano. Mi sono sentito rinascere in quell'angolo unico al mondo dove la polvere è profumata (sono ingiusto, lo è in Grecia come in Provenza). E ho avuto l'impressione di essere stato, tutta la vita, un imbecille...». È certo che l'aereo ci svela qualcosa del mondo. Ma si tratta del suo “vero volto”? Le precedenti osservazioni ci conducono a due conclusioni. La prima è che ogni cosa ha la sua durata propria, incompressibile. Pretendere di guadagnare tempo rispetto a tale durata essenziale, può solamente farcelo perdere e, con il tempo, perdere la cosa stessa. Chi va più in fretta della musica perde la benedizione delle Muse. Quello che adatta la crescita di piante e animali all'agilità crescente delle sue macchine, ottiene certo rendimenti formidabili, ma in una campagna devastata. Seconda conclusione: quando si è vissuto con i progressi dell'aviazione, è possibile, all'improvviso, scoprire il carretto. Cosa che non può fare colui che ha il carretto come unico mezzo di trasporto. È forse questo il senso estremo dell'innovazione. Farci nascere su rotelle, in un treno ad alta velocità, in modo tale che possiamo alla fine scoprire il camminare e che camminare ci appaia, alla fin fine, quando le nostre gambe non ce la fanno quasi più, come la grande meraviglia, la grande novità misconosciuta, quella che nasconde lo slancio più vivo e più umano.