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La ricerca di un senso nell'insensatezza irriverente

Alessandro Zaccuri giovedì 13 settembre 2018
Il fascino discreto della borghesia non è un film rassicurante, ma del resto tutta l'opera di Luis Buñuel sta sotto il segno dell'inquietudine. E dello sberleffo, certo, a volte perfino dell'irriverenza, con effetti che all'epoca non mancarono di suscitare scandalo. Eppure, a riguardarle oggi, a distanza di tempo, pellicole come L'âge d'or (1930) e L'angelo sterminatore (1962), Bella di giorno (1967) e perfino Quell'oscuro oggetto del desiderio (1977) ci sembrano attraversati da un'intransigenza che è anzitutto insoddisfazione per la realtà così come ci si mostra. Ad agire, insomma, è il dubbio – o la speranza – che dietro il susseguirsi e sovrapporsi delle immagini si nasconda una trama ancora in qualche modo riconoscibile: una parola scritta in una lingua dimenticata, forse, e in un alfabeto che non si riconosce più.
La grandezza del Novecento sta proprio in questa volontà di confrontarsi e spesso venire a battaglia con l'invisibile anche quando si fa di tutto per negarne l'esistenza. Non è un autore spirituale in senso stretto, lo spagnolo e cosmopolita Buñuel (nato a Calanda, in Aragona, nel 1900, morì nel 1983 a Città del Messico dopo essere stato a lungo di casa in Francia), eppure senza la polemica verso il sacro il suo cinema semplicemente non esisterebbe. Può capitare che la riflessione critica sul cristianesimo sia l'elemento portante di un film, come accade con Simon del deserto (1965) e con La via lattea (1969), dove a fornire materia del racconto è la storia delle eresie, ma gli esiti non sono meno memorabili e impegnativi quando il richiamo all'invisibile rimane implicito. Come interpretare altrimenti la scena con la quale, in sostanza, il cinema di Buñuel si inaugura, quella dell'occhio umano sezionato da un rasoio in Un chien andalou (1929)? Una ferita che nello stesso tempo deturpa e amplifica la visione, una soglia apparentemente invalicabile che viene violata in maniera iniziatica e spavalda...
Di tutte queste suggestioni (solo in parte riconducibili alla militanza surrealista del cineasta), di tutte queste intermittenze e impazienze Il fascino discreto della borghesia rappresenta la sintesi più compiuta. È un film politico, come il cinema di Buñuel è stato fin dall'inizio e come non poteva non essere in quel momento, ovvero nell'anno 1972, lo stesso del massacro messo a segno dalla formazione terroristica Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco di Baviera. Mitra spianati e minacciosi occhiali da sole occupano uno spazio tutt'altro che trascurabile anche nel film, mescolati a una serie di apparizioni più o meno incongrue, più o meno rivelatrici. Lo schema è semplice, quasi meccanico in superficie: un gruppo di amici, tutti appartenenti alla famigerata bourgeoisie, dovrebbe ritrovarsi a cena, ma c'è sempre un contrattempo – un sogno, un incubo, una morte, un fantasma – a turbare la loro tranquillità. Il genio del regista (e del suo collaboratore più stretto, lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière) sta nell'imprevedibilità e crudeltà delle variazioni. La scena principale è nella villa dei coniugi Sénéchal, interpretati rispettivamente da Jean-Pierre Cassel e Stéphane Audran, scomparsa di recente, ma niente affatto trascurabile è il ruolo della loro domestica Inès, affidato all'attrice italiana Milena Vukotic. Il personaggio più importante è però quello di Rafaël Acosta, ambasciatore dell'immaginaria Repubblica di Miranda, per il quale Buñuel fa ricorso a uno dei suoi attori-feticcio, Fernando Rey. Ipocrisie, veleni non soltanto metaforici, tradimenti di ogni tipo, perfidie e vacuità. Ma tutta questa insensatezza, alla fine, non nasconderà una ricerca, un'invocazione di senso?