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La reincarnazione, un cattivo ricordo...

Roberto Spataro mercoledì 27 marzo 2013
Tornare al mondo di Stefania Rocchetta (Il Mulino, pp. 152, euro 14) è una passeggiata tra «resurrezioni, rinascite e doppi nella cultura antica», che ha il fascino dell'erudizione e attinge ad autori non esattamente popolari come Beroso, Nemesio, Taziano, Filostrato, Simplicio, Diogene Laerzio, e decine d'altri. Il bello è che di questi autori spesso ci sono giunti solo frammenti, magari come citazioni di citazioni, per cui l'abilità dell'erudito sta nel collegare tessere di mosaico non di rado eterogenee nel tentativo di ripristinare un disegno plausibile che, in ogni caso, conserverà l'alone di mistero congetturale in cui consiste in gran parte lo charme di questo genere di studi. A dire il vero, prima di immergersi e immergerci nella classicità Stefania Rocchetta, che è ricercatrice nell'Università di Siena, fa il punto partendo da Locke, al quale si deve, dal 1694, il brevetto dell'espressione «identità personale». Locke, spiega Rocchetta, «recide il legame, che pareva certo nella tradizione cristiana, tra identità personale e anima», perché sarebbe inservibile per spiegare la dottrina della reincarnazione. Domanda: perché si dovrebbe spiegare la dottrina della reincarnazione, se la reincarnazione è una dottrina senza prove? Gli autori cristiani consideravano la metempsicosi «una dottrina da mettere in ridicolo, indegna di qualsiasi credibilità», e mi sembra che avessero proprio ragione. Del resto, Locke pensava di cavarsela configurando l'identità come coscienza, cioè «la consapevolezza di una continuità tra eventi esperiti da un medesimo soggetto». La domanda elementare è: e allora dove sta la coscienza, se non nell'anima? La sineddoche vale nei due sensi: la parte (coscienza) per il tutto (anima), o il tutto (anima) per la parte. Certamente la memoria (che riguarda anche la coscienza) è importantissima, ma Rita Hayworth che nei suoi ultimi anni, per via dell'Alzheimer, non riconosceva la propria immagine allo specchio era pur sempre Rita Hayworth. A ridurre l'identità personale alla coscienza soggettiva ci si immette in sentieri senza uscita: anche lo sguardo dall'esterno, per non parlare della «relazione» (che è una categoria che mi insospettisce), andrebbe tenuto in conto. Il capitolo più ampio è dedicato a Pitagora, strenuo sostenitore della metempsicosi, il quale, secondo Eraclide Pontico, era convinto di essere stato, in passato, Etalide, e poi Euforbo, e poi ancora Ermotimo, Pirro e finalmente in Pitagora, conservando memoria di tutte le vite precedenti. Mi sembra che l'obiezione più forte, contro la metempsicosi, sia che, se metempsicosi ci fosse, tutti – e non solo privilegiati testimoni come Pitagora – dovrebbero avere memoria delle vite precedenti. Il fatto è che tutte queste narrazioni e questi miti sono emozionanti in quanto narrazioni e miti, efficaci magari per inferenze psicologiche, ma difficilmente utilizzabili per la distinzione tra filosofia e saggistica. Ciò non toglie importanza alla memoria, che va esercitata, come facevano i pitagorici, secondo Diodoro Siculo e Giamblico: «Il pitagorico non si levava dal letto prima di aver richiamato alla memoria quanto era accaduto il giorno prima. E procedeva così: cercava di rievocare nella mente la prima cosa che aveva detto, ascoltato o ordinato ai domestici appena alzato, e poi la seconda o la terza; lo stesso faceva anche per le successive. Quindi cercava di ricordare con chi, uscendo, si fosse incontrato per primo e con chi per secondo... e così via rievocando tutto ciò che era accaduto il giorno prima». Certamente un bellissimo esame di coscienza mattutino, praticabile però solo da chi non debba presentarsi in ufficio entro le nove.