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La prigione-Afghanistan e il nostro preciso dovere

Mauro Berruto mercoledì 29 settembre 2021
Mi è capitato, per quanto nelle mie competenze e forze, di esser stato parte di una squadra di persone che hanno permesso ad alcune sportive afghane di lasciare il loro Paese, dopo l'arrivo al potere dei talebani. I lettori lo sanno perché ne scrissi qui già a inizio settembre. Si tratta di calciatrici, cicliste, ora una pallavolista con cui sono stato in continuo contatto nell'ultimo mese, fino al lieto fine della sua storia. Queste donne hanno tutte la stessa presunta “colpa”: aver voluto praticare uno sport. Corrono lo stesso pericolo, essere uccise, e sono sottoposte allo stesso agghiacciante metodo: essere braccate, cercate di casa in casa, costrette a vedere i propri famigliari minacciati, picchiati, torturati, uccisi.
Questo è l'Afghanistan oggi, o almeno la porzione di Afghanistan di cui ho testimonianza diretta. Queste donne, quelle che ce l'hanno fatta, sono riuscite a uscire dal loro Paese in due modi molto diversi: con i voli militari di evacuazione, cosa difficilissima, ma possibile fino al 26 agosto, giorno del tragico attentato ad Abbey Gate; oppure, adesso, attraverso delle esfiltrazioni via terra, superando in qualche modo e in virtù di uno straordinario coraggio individuale, i confini con un Paese limitrofo. Due modi diversi, ma entrambi drammatici e fatti di montagne russe di terrore, speranza, rassegnazione, qualche volta gioia. Prima del 26 agosto la strada era l'assalto all'aeroporto di Kabul nella speranza di passare quel varco, finire sotto custodia dei nostri soldati, essere imbarcati su un volo militare e arrivare così in Italia. Oggi l'unico modo è nascondersi per settimane intere, mettersi in cammino verso l'Iran, l'Uzbekistan, il Pakistan tentare di passare illegalmente il confine e sperare nel lavoro dei nostri diplomatici, per accedere a un visto che permetta, a sua volta, di salire su un volo civile. Un percorso lunghissimo, pieno di rischi. Banalizzando potremmo dire che, nel primo caso, era come correre i 100 metri, nel secondo, prepararsi fisicamente e mentalmente a una logorante maratona.
La catastrofica situazione dell'Afghanistan impone di trovare una soluzione e un metodo. Non è possibile voltare lo sguardo da un'altra parte, di fronte a questa caccia a donne, uomini, bambini che ricorda troppo da vicino un immenso pogrom dei giorni nostri. Oggi noi sappiamo tutto, vediamo tutto, ascoltiamo tutto in tempo reale. Ne sono testimone diretto, nel paradosso di non essere mai stato in Afghanistan, con il mio telefono pieno di immagini, vocali, documenti, messaggi di persone in fuga da un inferno e che fanno gelare il sangue. Non c'è altro da aggiungere se non due cose: la prima è non spegnere la luce su una vicenda che un mese fa era molto presente nei telegiornali, sui quotidiani, nelle discussioni politiche. La seconda, la più importante in assoluto, è aprire corridoi umanitari, il prima possibile.
Oggi migliaia di donne, uomini, bambini sono prigionieri all'interno del loro Paese, braccati e condannati ad essere cadaveri ambulanti, senza aver nessuna colpa. Come si può restare indifferenti? Come si può immaginare di convivere con la propria coscienza sapendo che, sotto i nostri occhi, sta andando in scena una tragica riedizione de "I sommersi e i salvati"?