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La presidente e Bintou, immaginare liberiani nel Sahel

Mauro Armanino martedì 26 luglio 2016
Immaginarsi se sapeva prima della loro esistenza. Ellen Johson Sirleaf, presidente della Liberia, era in visita a Niamey. La prima donna eletta presidente nella Liberia della guerra civile durata quindici anni. Lei è anche presidente in carica di tutti i capi di Stato dell'Africa Occidentale. All'aeroporto ha scoperto i connazionali migranti, riuniti a farle festa all'arrivo con bandiere e canti gospel.Premio Nobel per la pace nel 2011 si è laureata ad Harvard. Figlia d'arte per discendenza di sangue dai "Congo", americani tornati alle radici dell'Africa. Non sapeva nulla dei liberiani che da anni se ne vanno altrove. Fuggono la disperazione della ricostruzione servita soprattutto a nutrire migliaia di caschi resi blu dalla vergogna. Ma soprattutto non poteva immaginare che Bintou era ospite da qualche giorno presso la Maternità Centrale di Niamey. Lei e gli altri non esistevano affatto, e non fanno parte dei punti discussi nelle relazioni bilaterali col Niger.Immaginarsi se poteva sapere di Bintou. Partita col padre del bambino fino alla rive della Libia e poi cacciata indietro complice il mare del deserto. Incinta, strada facendo, arrivata fino ad Agadez. Complice un camion approda, col suo indocumentato passeggero, nella capitale. Passano le ore, i giorni e qualche settimana. Il suo passeggero stagionale si impunta e, senza contratto lavorativo, esce per un permesso di soggiorno almeno temporaneo. Ed è alla Maternità Centrale di Niamey, un tempo specializzata in scomparsa di neonati, che Bintou, in una prima mattina di domenica, dà la luce al giorno. Nasce il suo primo figlio del Sahel, in una maternità che di centrale porta solo il titolo. Nasce come un re, anzi come un imperatore, col parto cesareo dell'ultima ora. Per salvarli entrambi, madre e figlio ancora senza nome. Bintou non potrà uscire dalla maternità finché non avrà saldato il conto dell'operazione. Gratuita per i nazionali, a pagamento per gli stranieri.Immaginarsi se Ellen Jonhson poteva sospettare che il suo arrivo sarebbe coinciso col parto cesareo di una connazionale. Lei, una presidente esiliata per anni, sopravvissuta al colpo di stato di Samuel Doe mentre era ministro dell'Economia. Sfidante di George Weah, già pallone d'oro e attualmente deputato all'assemblea nazionale in Liberia. Bintou ha saputo dell'arrivo della presidente del Paese che per anni l'ha tradita. A questo servono infatti le migrazioni. Riparano i tradimenti perpetrati dalla politiche e dalle guerre che ne sono la conseguenza. Il padre del bambino si chiama Titus, il nome del maresciallo croato che ha inventato la defunta Iugoslavia resistente. Il nostro Titus non immagina neppure che il suo nome è quello di un imperatore romano. Un trionfo breve, di un paio d'anni e nulla più, appena sufficienti a costruire l'arco che ancora rimane di ricordo della distruzione di Gerusalemme. Ma questo, il padre del bambino, non lo sa.Immaginarsi se hanno parlato di Bintou, di suo figlio e delle decine di liberiani senza documenti di Niamey che vivono in colonie. Non tornano e non partono altrove. A volte ritentano il viaggio dal quale sono stati scacciati. Alcuni hanno visto il mare e gli altri solo sabbie mobili come onde che respingono i canotti alla riva. Altri invece erano i temi da dibattere, come le risorse minerarie, l'agricoltura, l'allevamento e l'educazione. Al primo posto stava comunque la sicurezza del Sahel. Bintou non si immaginava neppure che la presidente del suo Paese le facesse la sorpresa di visitare la città dove è diventata madre. La festa dell'indipendenza della Liberia si celebra tra qualche giorno e Bintou prolungherà il soggiorno alla Maternità Centrale. I liberiani erano numerosi all'aeroporto per festeggiare l'arrivo della loro presidente. Per un momento sono usciti dalla cronica clandestinità della storia che li ha condotti qui. Bintou, dopo il parto cesareo, non sa ancora che nome dare a suo figlio. Suo padre scommette che un giorno sarà presidente.Niamey, luglio 2016