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La porta del non-ritorno (e tutte le altre porte)

Mauro Armanino martedì 23 novembre 2021
A Ouidah, nell'attuale Bénin dell'Africa Occidentale, le porte visibili sono poco lontane una dall'altra. La prima racconta il luogo del non-ritorno per milioni o centinaia di migliaia di schiavi imbarcati per le Americhe durante quattro secoli. La seconda ricorda invece l'arrivo dei primi missionari cristiani che sarebbero poi stati sostituiti da altri, nel 1861. Due porte che danno sull'oceano Atlantico, una per una partenza senza ritorno nella schiavitù e l'altra per un arrivo che aveva come missione quella di spezzare le catene. Davanti alle due porte sta l'oceano, che si accampa come può tra un'onda e l'altra delle piroghe che ancora vanno alla pesca. La porta del non-ritorno, preceduta dal sentiero degli schiavi, l'albero della dimenticanza e il muro del pianto, comincia presso il Forte Portoghese, dove gli schiavi erano raccolti e venduti. Il governo del Paese ha deciso di trasformare tutta questa area, dalla capitale economica Cotonou fino a Ouidah, una cinquantina di chilometri, in una zona riservata al turismo, soprattutto internazionale. Qualche giorno fa, la Francia ha restituito al Bénin alcune opere diventate bottino di guerra durante la conquista coloniale. Arrivano i manufatti in grande pompa politica e nel frattempo si demoliscono centinaia di abitazioni di fortuna. Anche questa è una porta che si potrebbe definire del non-ritorno per la povera gente che una volta di più si ritrova schiava. Schiava della miseria. L'altra porta, poco lontana dalla precedente, marca l'arrivo dei missionari, alcuni dei quali avrebbero trovato la morte per malattie e condizioni di vita difficili. Da una porta di morte all'altra che, tra tutte le contraddizioni della storia coloniale dell'epoca, ha cercato di traghettare vita. Anch'essa si affaccia sull'Atlantico e con pudore incide nel muro la forma del Paese che per i viaggiatori per mare si fece terra ferma, la Repubblica del Bénin, chiamata allora Dahomey. Regni locali che utilizzavano schiavi già prima dell'arrivo degli arabi e, poi, degli occidentali. Cioè di coloro che avrebbero reso il processo ancora più crudele e "industriale", per il ben noto commercio triangolare. La seconda porta, sulla quale sono scritti i nomi dei primi due missionari, si apre su una terza porta, stavolta invisibile. È la porta di coloro che abbandonano il continente e, con piroghe e altre imbarcazioni di fortuna, cercano altrove ciò che percepiscono di avere smarrito in patria. Sono migliaia i giovani migranti morti nell'oceano Atlantico, nel tentativo di raggiungere e passare una quarta porta ancora, quella d'Occidente, piantata nelle isole Canarie, territorio spagnolo. Per molti, è un'altra porta del non-ritorno, anch'essa invisibile sulle sponde dell'oceano. Per trovarne una simile c'è da cambiare di mare e passare dall'Atlantico al Mediterraneo. Si trova nell'isola di Lampedusa, ed è chiamata "porta dell'Europa", in fondo a un braccio di mare che è cimitero per troppi. Ci sono poi tutte le altre porte. Frontiere e feritoie che si moltiplicano, crescono, diventano muri di sabbia, di reticolato, di cemento e di "sensori" e che per alcuni, mai poveri, assumono la forma di aperture senza condizioni. Già, le porte, a ben pensarci, sono dappertutto e conservano un fascino difficilmente imitabile. Si possono trasformare, d'improvviso, in un magico ritorno al luogo di imbarco, con negli occhi i tanti volti attraversati e sulle labbra il racconto di un viaggio senza fine.
Ouidah, Bénin, novembre 2021