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La poesia di Trinci non è mai solipsistica

Cesare Cavalleri mercoledì 30 dicembre 2020
Mercoledì scorso abbiamo presentato tre dei quattro poeti antologizzati da Gabrio Vitali sotto il titolo Sospeso respiro. Poesia di Pandemia, riservandoci per oggi il quarto poeta. Dunque, dopo Alberto Bertoni, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Giancarlo Sissa, eccoci a Giacomo Trinci.
Felice occasione ritrovare questo poeta appartato, anche se ha già pubblicato parecchio: da Cella (1994) a Voci dal sottosuolo (1996), e poi Telemachia (1999), Resto di me (2001), Senz’altro pensiero (2006), La cadenza e il canto (2007), Inter nos (2013), senza dimenticare le 432 (quattrocento trentadue!) ottave ariostesche dell’Auto–biografia di un burattino, dedicate a Pinocchio (2004). Trinci ha anche tradotto Nella pietra e nel vento di Adonis (1999) e curato un volume di poesia araba. Va detto subito che la poesia di Trinci è poesia intenzionalmente «difficile», e il lettore non è agevolato dalla punteggiatura, dove il punto fermo, non seguito da uno spazio e senza maiuscole, spesso interrompe a sorpresa il filo del discorso: poesia da leggere ad alta voce, dunque, scandendo bene, quasi un canto fermo: «Una pigrizia tonda li raccoglie. / un’inerzia cedevole all’abisso. / si sta. così. voi tutti noi. di voglie / contro voglie. disinibite foglie. / d’estenuato in estenuato scisso. / diviso da me come indiviso», e così via. Già da questi sei versi, tutti endecasillabi calibratissimi, si intuisce che il gioco delle allitterazioni e delle assonanze («contro voglie. disinibite foglie»; «d’estenuato in estenuato scisso»; «diviso da me come indiviso») sta a indicare che il poeta si fa prendere dalla lingua, è parlato, non parla, allude, accenna. Tanto più che Trinci, anziché dare un titolo alle poesie, molto spesso preferisce farle precedere da tre puntini fra parentesi (…), quasi a dire che il discorso viene da lontano, e il più è sottinteso. E, con nonchalance, lascia cadere definizioni di poetica come questa: «Ripensare il respiro è la poesia, / la critica feroce, inapparente, / per un presente che, mai più, non sia». «Ripensare il respiro»: forse viene da lì anche il titolo dell’antologia, «Sospeso respiro», perché Trinci è intento a razionalizzare anche i ritmi biologici spontanei, mentre somatizza perfino il pensiero.
Nell’ampio e circostanziato saggio che Gabrio Vitali dedica a Trinci come a ciascuno degli altri tre antologizzati, si legge: «Il ritmo incalzante del verso di Trinci non dà pace al lettore e lo trascina, con voluta e maieutica crudezza, su quella che anche papa Francesco ha definito più volte la normalità virale della nostra società dominata di riti del profitto e del consumo, dell’individualismo e dell’omologazione». È la valenza sociale, dunque politica, di un poeta mai solipsistico, che Vitali iscrive nella linea dantesca, perché il petrarchismo umanista e rinascimentale di Trinci è reso in soluzioni metriche di ascendenza classica.
L’ultima parola, dunque, spetta a Trinci: «Perché il respiro si soffoca, perché / nel fiato che ci manca non c’è fiato? / questa la domanda più politica / come rifarsi il fiato, il fiat, la poesia / come nascere fondo che più sia / del mio del tuo, sempre più nostro, mondo?».