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La musica per la liturgia di Mozart dove si incontrano umano e divino

Andrea Milanesi domenica 2 settembre 2012
Molto spesso la critica si ritrova concorde nell'affermare che Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) sembri sconfinare nel profano quando scrive musica sacra e nel sacro quando si dedica alla musica profana; al di là di giudizi sommari che rischiano di banalizzare il valore di un universo creativo di portata assoluta, in lui questi due "nature" sembrano infatti sovrapporsi fin quasi a coincidere, nel senso che il maestro austriaco non riesce a concepire una composizione di carattere religioso che appaia eterea, disincarnata, in cui non brucino la passione e il calore dei sentimenti umani.La grandezza artistica di Mozart, che lo rende forse unico nel panorama musicale, è proprio quella di racchiudere in poche battute un intero universo espressivo, estetico e spirituale che sia in grado di raggiungere l'animo di chiunque lo avvicini proprio perché ha a che fare con un anelito alla bellezza veramente infinito.È questa la vertigine che si apre di fronte a pagine sacre come quelle racchiuse nel disco che il St Paul's Cathedral Choir e la Mozart Orchestra diretti da Andrew Carwood hanno dedicato prevalentemente alle opere dell'estremo periodo salisburghese, affiancando la Sonata da chiesa K336 per organo e archi, il Regina coeli K108, i policromi Vesperae solemnes de Dominica K321 e soprattutto la Missa Solemnis K337, ultimo lavoro liturgico completato – nel 1780 – dal musicista (cd pubblicato da Hyperion e distribuito da Sound and Music).Si tratta di una partitura che, nonostante il nome altisonante, risulta di proporzioni alquanto ridotte, da eseguire però in occasioni appunto "solenni", in cui la genialità e la sensibilità mozartiana riescono ancora una volta a descrivere la condizione esistenziale dell'uomo nella sua dimensione più autentica e profonda, come testimonia l'invocazione di pace e misericordia che pervade il sublime Agnus Dei conclusivo, sulla cui linea melodica, non a caso, qualche anno dopo Mozart avrebbe concepito l'aria che la Contessa d'Almaviva intona nel secondo atto delle Nozze di Figaro («Porgi, amor, qualche ristoro, al mio duolo, a' miei sospir! O mi rendi il mio tesoro, o mi lascia almen morir»). Ennesima prova che rende ancora più labile il confine mozartiano tra dimensione sacra e profana.