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La grandezza di sapere il valore della sconfitta

Mauro Berruto mercoledì 18 dicembre 2019
Federico Morlacchi è, prima di tutto, un ragazzo di ventisei anni appena compiuti. Poi è un atleta, di quegli sport di fatica pura, dove prendersi cura di un gesto e ripeterlo all'infinito fa la differenza. È un nuotatore, ma non uno qualsiasi. È un numero uno dello sport paralimpico e ha vinto un numero industriale di medaglie che, se le elencassi tutte, non basterebbe la pagina di questo giornale. Ha vinto tutto in Europa, ha vinto tutto nel Mondo, ha vinto sette medaglie ai Giochi Paralimpici fra Londra e Rio, tra cui quella d'oro nei 200 metri misti. Federico, affetto da ipoplasia congenita al femore sinistro, era fra gli invitati alla cerimonia di consegna dei Collari d'Oro, il massimo riconoscimento per lo sport italiano, nella palestra monumentale del Coni, alla presenza del presidente del Coni Giovanni Malagò e quello del comitato Paralimpico Luca Pancalli, del premier Giuseppe Conte e del ministro dello Sport Vincenzo Spadafora.
Una cerimonia di gala, un ponte fra la celebrazione degli enormi successi sportivi di atleti come Federica Pellegrini, Bebe Vio, Alex Zanardi, il settebello di pallanuoto e tanti altri campionissimi dello sport olimpico e paralimpico che hanno vinto tutto. Gente capace con le proprie imprese di ispirare, di emozionare, di trasmettere quel mix fra agón, radice della parola agonismo, competizione, (ma anche agonia, la fatica necessaria per competere) e areté ovvero quella virtù che contraddistingue chi sa fare bene una cosa, chi assolve perfettamente al proprio compito.
La cerimonia era anche una celebrazione del futuro, delle sfide sportive che ci attendono, i prossimi Giochi Olimpici di Tokyo, in estate, e poi la programmazione verso i Giochi Invernali del 2026, quelli che ospiterà il nostro Paese. Tutto molto alto, quasi aulico.
Poi, a un certo punto, prende la parola Federico Morlacchi, da Luino, Varese e nel microfono soffia pacatamente pochissime parole. Parole capaci di capovolgere un paradigma, un punto di vista, parole di ispirazione vera, in mezzo a tanto celebrare: «In questa sala ad accomunarci tutti, non sono le vittorie, ma le sconfitte. Oggi manca la cultura della sconfitta, bisogna ritrovarla, fa bene a tutti».
In questo mondo orientato alla performance, alla prestazione sempre più eccellente, all'asticella sempre più alta, un ragazzo che ha vinto tutto, superando una disabilità, ci ricorda che per vincere, prima di tutto, bisogna saper perdere. Deve aver sentito una suggestione simile Deontay Wilder, campione del mondo dei pesi massimi Wbc, condotto a visitare al Museo Nazionale Romano la statua, attribuita alla scuola di Lisippo, del "Pugilatore a riposo". La più straordinaria rappresentazione della sconfitta, un capolavoro forgiato oltre 2.500 anni fa nel bronzo che ci ricorda come, anche nel mondo dell'antichità classica, fosse chiaro che lo sport racconta due storie. Quella della vittoria e quella della sconfitta. Il "Pugilatore a riposo" è un pugile che ha perso davanti ai suoi tifosi. È rappresentato seduto, devastato dalla sconfitta. Ne porta i segni sul volto, le cicatrici, il sangue, ha i denti e il naso rotti e le orecchie gonfie per le botte subite. Tuttavia un semplice gesto, quel voltare il viso e lo sguardo in alto alla sua destra, ci fa immaginare che sia come se sentisse la voce di qualcuno che lo sta invitando a rialzarsi, a preparare l'incontro successivo. Un'immagine potentissima che ha messo ko Deontay Wilder, il campione in carne e ossa.
Certo fa un po' pensare il fatto che, dopo essersi commosso, Wilder si sia voltato verso i presenti e, probabilmente per potersi garantire per sempre la forza di quell'ispirazione, ha chiesto: «Ok, splendida. Quanto costa?». «Priceless» gli hanno risposto. Già, senza prezzo.
Come le lezioni che certe sconfitte ci regalano, a patto di voler imparare.