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La “fuga” di Rigoni negli oggetti

Alfonso Berardinelli venerdì 26 novembre 2021
Conoscevo e non conoscevo Mario Andrea Rigoni, scomparso un mese fa dopo aver sofferto per anni di una malattia che ha fatto del dolore il centro delle sue riflessioni. Studioso del pensiero di Leopardi, amico e traduttore per la Adelphi di un aforista amaro come Cioran, virtuoso dello scetticismo più radicale, Rigoni era un italianista, un erudito e uno scrittore lui stesso di aforismi anche in forma sia narrativa che poetica. Ci siamo incontrati una sola volta a Padova, dove insegnava, e poi solo qualche rara telefonata in cui, nella sua solitudine di uomo mite e discreto, chiedeva amichevole attenzione per i suoi scritti. L'anno scorso mi chiese di aiutarlo a selezionare per la pubblicazione le molte poesie che aveva scritto negli ultimi tempi. Non lo feci, a mia volta per discrezione forse eccessiva, ma soprattutto perché lo ritenevo assolutamente in grado, per cultura e sensibilità critica, di autogiudicarsi e di scegliere cosa pubblicare e cosa no. Ora che è scomparso, che non c'è più, che non riceverò più una sua telefonata, ho davanti a me le sue ultime pubblicazioni: le poesie intitolate Colloqui con il mio demone, postfazione di Francesco Zambon (elliot), e Vanità, saggi frammentari con postfazione di Tim Parks (La scuola di Pitagora). Tra aforismi e poesie c'è in Rigoni una continuità che rende poetici gli aforismi e aforistiche le poesie. In queste ultime Zambon nota l'assoluta presenza fisica e metafisica di un mondo nel quale gli esseri umani hanno ceduto lo spazio alle pietre e agli oggetti: una visione che si ritrova in autori come Montale, Kafka, Benjamin, Borges, Zbigniew, Herbert e più indietro nella letteratura emblematica e allegorica del Rinascimento e del Barocco studiata da Rigoni nel volume Maschere della verità. La «perfezione del ciottolo», ad esempio, è il suo essere «rimasto indifferente alle sue ferite» e «colmo di sé, ma non vanitoso, quieto e passivo, se lasciato al suo immobile sonno minerale, non ha mai fatto male a nessuno e poco ha partecipato alla vita sociale». La perfezione e l'immobilità sono quello che noi non siamo. Gli oggetti, contemplati come allegorici emblemi, ci suggeriscono virtù di cui le nostre fatue e vane inquietudini non sanno nulla, o forse suggeriscono la fuga da un'umanità tanto afflitta da stupidità e tragedie.