Rubriche

La felicità che solo Gesù può dare

Ermes Ronchi giovedì 2 settembre 2010
XXIII Domenica
Tempo ordinario-Anno C

In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro". (...) Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

«Se uno viene a me, e non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli...». Le parole di Gesù bruciano, sono difficili, perfino pericolose se capite male, ma
a capirle a fondo sono bellissime. Sembrano una crocifissione e sono una risurrezione del cuore. Spezzano la conchiglia per trovare la perla.
Il centro di queste frasi non sta in una serie di «no» detti alle cose belle e forti della vita, ma in un «sì» detto a una cosa più bella ancora, che Dio solo ha e nessun altro può dare. L'accento delle frasi non è sulla rinuncia, ma sulla conquista. È come se Gesù dicesse: tu sai quanto è bello voler bene a padre, madre, moglie o marito, ai figli, quanto fa bene, quanto fa vivere. Io ti offro un bene ancora più grande e bello, che non toglie niente, aggiunge forza, gioia, profondità.
Dice Gesù: io posso darti più di tutti gli affetti della famiglia... Sembrano le parole di uno fuori dalla realtà, di un esaltato: «Io ho qualcosa di più bello delle esperienze più belle che puoi fare sulla terra, io solo posso farti rintracciare la felicità. Io solo».
Nessuno ha mai detto «Io» con questa forza e con questa pretesa.
«Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»: «portare» è ben più di «sopportare»; «croce» non è la metafora di tutte le fatiche, le difficoltà e le sofferenze della vita; quella parola contiene il vertice e il riassunto della vicenda di Gesù.
«Portare la propria croce» è una espressione forte che non si riduce a un invito alla rassegnazione, saggio ma in fondo scontato. Si tratta di una scelta attiva: scegli per te una vita che assomigli a quella di Gesù: pensa i suoi pensieri, ripeti le sue scelte, preferisci quelli che lui preferiva, vivi una vita come la sua, che sapeva amare come nessuno. Prendi su di te la tua porzione d'amore altrimenti non vivi; prendi la porzione di dolore che ogni amore comporta, altrimenti non ami.
Allora capiamo che il cristiano non è figlio di una sottrazione, ma di una addizione, che Cristo è intensificazione dell'umano, che nominarlo equivale ad incrementare la vita.
Al centro di tutto sta un Assoluto che offre la sua luce sulla vita e sulla morte, che dona eternità a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore. Che non toglie amori, ne aggiunge. Il discepolo è uno che sulla luce dei suoi amori stende una luce più grande. E la sua «fede diventa l'infinita passione per l'esistenza» ( Kierkegaard ).
Questo Gesù non lo ami se non lo conosci, ma se arrivi a conoscerlo non lo lasci più.
(Letture: Sapienza 9,13-18; Salmo 89; Filèmone 1,9-10.12-17; Luca 14, 25-33).