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La cura dell'educazione per l'umanità afflitta da un'economia malata

Salvatore Mazza sabato 30 giugno 2018
A Durango, durante la visita apostolica compiuta in Messico nel maggio del 1990, incontrando gli imprenditori di quel Paese Giovanni Paolo II condannò senza mezzi termini gli eccessi del liberalismo che trovano nel profitto l'unica giustificazione, qualunque sia il mezzo impiegato per raggiungerlo. Papa Wojtyla usò parole durissime, che sul momento non trovarono quasi nessuna eco. Quelle parole, tuttavia, ritornarono esattamente un anno dopo nella Centesimus annus, enciclica “rivoluzionaria” nella quale Giovanni Paolo II per la prima volta metteva insieme il rischio di un'economia disumanizzata e l'esigenza «di una grande opera educativa e culturale», indispensabile quest'ultima in quanto «il sistema economico non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti, che ostacolano la formazione di una matura personalità».
Da allora in avanti, e con tono di allarme crescente a mano a mano che si faceva strada il concetto di globalizzazione, quest'idea è ritornata con acuta insistenza sia nel magistero pontificio, con pagine memorabili da Benedetto XVI a Francesco, sia in innumerevoli pronunciamenti di organismi ecclesiali, a iniziare dal bellissimo – benché poco conosciuto – documento della Conferenza episcopale inglese che, proprio nel 1991, affrontò con grande coraggio il tema dell'educazione come chiave per lo sviluppo. Perché il problema, come ha ripetuto ancora lunedì scorso papa Francesco, è quello di «dare un'anima al mondo globale, attraverso una formazione intellettuale e morale che sappia favorire le cose buone portate dalla globalizzazione e correggere quelle negative»; infatti, al contrario, una globalizzazione «senza speranza e senza visione è esposta al condizionamento degli interessi economici, spesso distanti da una retta concezione del bene comune, e produce facilmente tensioni sociali, conflitti economici, abusi di potere».
Davanti al Pontefice i membri della Fondazione Gravissimum educationis, organismo voluto nel 2015 dallo stesso papa Bergoglio in occasione del 50° anniversario della omonima dichiarazione conciliare sull'educazione cristiana, documento che, ha ricordato Francesco, «suggeriva la cooperazione fra le istituzioni scolastiche e universitarie per meglio affrontare le sfide in atto» e che oggi deve spingere tutta la Chiesa a «fare rete» perché «solo cambiando l'educazione si può cambiare il mondo». Mentre, di fronte all'avanzare di una globalizzazione selvaggia, acquistano diritto di cittadinanza grandi e piccoli egoismi, miopi particolarismi e bassi interessi “di bottega”, la prospettiva di «rete» richiamata da Francesco è una vera e propria sfida epocale. Perché significa «mettere insieme le istituzioni scolastiche e universitarie per potenziare l'iniziativa educativa e di ricerca, arricchendosi dei punti di forza di ciascuno, per essere più efficaci al livello intellettuale e culturale», significa «mettere insieme i saperi, le scienze e le discipline, per affrontare le sfide complesse con la inter- e trans-disciplinarietà», come anche «creare luoghi d'incontro e di dialogo all'interno delle istituzioni educative e promuoverli al di fuori, con cittadini provenienti da altre culture, di altre tradizioni, di religioni differenti, affinché l'umanesimo cristiano contempli l'universale condizione dell'umanità di oggi». Premessa indispensabile per «dare risposte aggiornate ai dilemmi del presente, avendo uno sguardo di preferenza per i più bisognosi». Aggiornate e, soprattutto, vere.