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La cultura colonizzata degli «americanismi»

venerdì 12 dicembre 2014
   Parlo con dei giovani italiani che vanno e vengono da più parti del mondo, e che sanno le lingue. La mia generazione, soprattutto se di origini modeste (si diceva così, un tempo) le lingue non le sapeva, e ancora adesso il mio inglese fa schifo (lo leggo e ho osato perfino tradurlo, ma a parlarlo mi perdo, come col mio spagnolo) e se una lingua straniera la conosco, il francese, è perché i miei furono costretti dalla necessità, nei lontani anni cinquanta del Novecento, a emigrare oltralpe. I giovani di oggi sanno tutti o quasi tutti l’inglese e non sono pochi quelli che sanno il tedesco e lo spagnolo, mentre il francese è passato di moda. Essi si muovono tra un Paese e l’altro e passano da una lingua all’altra, e io sono felice per loro, e per dir tutto, li invidio. Ciò non toglie che mi dia sempre un gran fastidio l’abuso dell’inglese, ovunque il guardo io giro: quando si leggono i giornali e si ascoltano i giornali-radio o i tele-giornali, e si parla di economia, di finanza, di spettacolo, di fatti della vita, di tutto… Vedo in questo non un segno di apertura al mondo. È vero che l’inglese, con l’arabo, lo spagnolo, il cinese, è la lingua più parlata dagli esseri umani; ma l’arabo lo spagnolo il cinese non sono affatto così invadenti come l’inglese, o meglio, l’americano. Aveva ragione quel personaggio di un film degli anni settanta, Nel corso del tempo, a constatare, canticchiando qualche canzone rock, che «il nostro inconscio è colonizzato dagli americani». Non considero la civiltà statunitense il punto più alto nella storia dell’umanità, anzi lo vedo come uno dei Paesi dalla morale più riduttiva e culturalmente, militarmente, economicamente uno dei più chiusi e prepotenti nei confronti delle altre culture, la cui aggressività aumenta a misura della sua paura di essere surclassato da Paesi emergenti o ri-emergenti. L’american way of life non è la migliore del mondo, anche se ci ha ammaliato con la pubblicità del suo benessere, e penso che oggi perfino Tocqueville e la Arendt non la vedrebbero come un alto modello di democrazia… A occhio, direi che l’invasione dell’americano sia stata favorita da una generazione più colonizzata dell’attuale, quella degli anni ottanta e novanta infiltratasi nei gangli del potere e al suo servizio, quella che è ormai d’uso chiamare "berlusconiana" o meglio, "berlusconian-veltroniana": non gli "americani a Roma" alla Sordi del dopoguerra ma gli "americani a Roma e a Milano" del giornalismo e della pubblicità, al seguito dei brutali affaristi del grande potere. Sono forse loro la vera "generazione perduta" dell’Italia recente.