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La Coldiretti contro i "falsi alimentari" più pesanti dei dazi americani

Andrea Zaghi domenica 10 giugno 2018
Meno dazi e tariffe ma anche meno concorrenza sleale. Sono le "solite" richieste degli agricoltori che vanno di pari passo con quella di non avere a che fare con una politica agricola comune finanziariamente tagliata da qui al 2027. Questione di soldi, dunque, ma anche di difesa dell'immagine e del buon nome del nostro Paese nel mondo. Oltre che dell'occupazione che sta dietro a tutto questo. Questione importante, quindi. Che non è solo di facciata, ma di sostanza. A tirare in ballo la concorrenza sleale e quindi i falsi prodotti agroalimentari italiani che popolano i mercati internazionali, ci ha pensato la Coldiretti in occasione del G7. E con ragione. Accanto al peso dei dazi, infatti, c'è il peso di circa 100 miliardi di valore dei falsi alimentari che inquinano gli scambi. Un commercio è veramente equo – è la tesi dei coltivatori diretti – se si rispettano le stesse regole sul piano ambientale, della tutela sociale dei lavoratori, della sicurezza dei cittadini e soprattutto della tutela dell'identità. Regole chiare, condivise e rispettate da tutti. Altro da quanto invece sta accadendo (e non solo nell'agroalimentare). Un fenomeno che negli anni è aumentato di tono. E non basta, perché sempre secondo Coldiretti «con un aumento record del 70% del fatturato nel corso dell'ultimo decennio, a preoccupare è anche la nuova stagione degli accordi commerciali bilaterali». Sotto accusa è, fra l'altro, proprio un accordo con il Canada (il Ceta) che per i coltivatori «accorda esplicitamente il via libera alle imitazioni che sfruttano i nomi delle tipicità nazionali. Una strada che è stata poi il riferimento degli accordi conclusi successivamente con Giappone, Singapore e Messico che hanno tutelato una percentuale residuale dei prodotti tipici nazionali mentre pesanti possono essere gli effetti del negoziato in corso con i Paesi del Sud America (Mercosur) dove la produzione locale del "falso" è tra i più fiorenti del mondo».
Insomma, per i coltivatori il giudizio è lapidario: così non va. E così non va nemmeno circa le prime ipotesi di riforma della Politica agricola comune (Pac) che prevedere un taglio, per l'Italia, di circa 2,7 miliardi di euro. La tesi in questo caso è più articolata. Le ipotesi di taglio alla Pac sono classificate «insostenibili in un settore chiave per vincere le nuove sfide che l'Unione deve affrontare, dai cambiamenti climatici, all'immigrazione, alla sicurezza»; senza contare che occorre «garantire una più equa distribuzione delle risorse tra gli Stati superando gli squilibri che hanno caratterizzato il passato». Da qui, come per la concorrenza sleale, un forte appello al nuovo Governo: fare presto e bene su due fronti entrambi cruciali per il destino del sistema agroalimentare nazionale.