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L'unione fa la forza non l'indifferenza

Mauro Berruto mercoledì 6 novembre 2019
Mentre in Italia sanguinano gli occhi, le orecchie e il cuore a leggere e sentire allucinanti cronache sportive e ancora più allucinanti tentativi di minimizzare o giustificare, sale forte il desiderio di guardare altrove. Non per scappare, tutt'altro, ma per provare a replicare all'odio con la virtù, allo squallore con la bellezza. Bisogna andare lontano, volare fino in Giappone dove, dopo quarantaquattro giorni di competizione, poche ore prima che in Italia si scatenassero le polemiche relative ai fatti dello stadio Bentegodi di Verona, terminava il campionato mondiale di rugby. La coppa l'ha sollevato al cielo un ventottenne ragazzo dalla pelle nera, Siya Kolisi. Il capitano. Per la precisione il primo capitano dalla pelle nera nella storia degli Springboks. Kolisi aveva quattro anni quando Nelson Mandela, nel 1995, riuscì nella miracolosa impresa di unire un Paese flagellato dall'odio razziale, di cui in prima persona aveva fatto le spese, proprio grazie alla squadra di rugby. I Mondiali, quell'anno, si disputavano in Sud Africa e quel risultato fu la moltiplicazione fra la visione di uno dei più grandi leader della storia dell'umanità e le qualità fisiche di 15 atleti guidati dal loro capitano François Pienaar e da Joël Theodore Stransky, mediano d'apertura nato da genitore ebrei di origine polacca, capace di portare a segno il drop (nel secondo tempo supplementare) che fissò il punteggio della finale sul 15-12 contro gli All Blacks neozelandesi. «Un calcio che cambiò la mia vita» lo definì Stransky, ma che cambiò anche la vita di milioni di sudafricani travolti, tutti insieme, da uno tsunami di gioia senza confini e senza barriere, ben rappresentata dall'incredibile sorriso di Mandela con addosso la maglia verde n. 6, quella di Pieenar e della sua (mai così sua) nazionale.
Madiba, sommerso dagli applausi sul palco aveva citato Desmond Tutu nel saluto inaugurale del torneo: «Siamo una nazione arcobaleno ed è nel rispetto delle sue componenti che stringiamo il mondo in un abbraccio ideale» e aveva, a suo modo, contribuito a fare la differenza nel risultato agonistico degli Springboks, bevendo una tazza di tè con il capitano Pienaar, episodio ben raccontato, al netto di una dose minima di fiction cinematografica, dal film Invictus. La maglia n. 6, quella di Pieenar e di Madiba, era sulle spalle di Kolisi, sabato scorso, in Giappone. Il primo capitano di colore (uno di quei bambini a cui il calcio di Stransky, ventiquattro anni fa, aveva cambiato la vita) ha pronunciato, al termine del match, un ispirato discorso: «Il nostro Paese ha molti problemi, ma avere una squadra così, con radici e razze diverse, compatta verso un unico obiettivo ha dimostrato che possiamo raggiungere qualsiasi cosa se lavoriamo uniti».
Nel 1995 un calcio cambiò la vita di Stransky, del piccolo Kolisi, di un Paese intero. Nel 2019 un calcio (quello di Mario Balotelli che, con un gesto di stizza, ha scagliato il pallone contro la curva dei tifosi ultras del Verona) ha generato prese di posizione, distinguo, tentativi di spostare l'attenzione sul dito che indica la Luna, invece che sulla Luna stessa. Qualche volta il tempo sembra fermarsi, in altre occasioni sembra scorrere pericolosamente all'indietro. Certamente lì, nel passato, ci sono tanto i sintomi di una malattia, quanto la sua cura: «Abbiamo bisogno di un'ispirazione» disse Nelson Mandela a François Pienaar davanti a quella tazza di tè. Abbiamo tremendamente bisogno di un'ispirazione, potremmo dire noi ai nostri sportivi, letterati, artisti, opinionisti. Quanto meno abbiamo bisogno di gente che dica come la pensa e che si schieri. Non sentiamo certamente più bisogno degli indifferenti. Anzi, ne avvertiamo distintamente il pericolo.