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L'oro e la luce splendono nell'«Andrej Rublëv» di Tarkovskij

Alessandro Zaccuri giovedì 30 novembre 2017
Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij è un film sull'arte e sulla fede, sul perdono e sulla violenza, sul segreto e sul silenzio che lo custodisce. È, più che altro, un film sulla luce, ossia un film sul cinema, e non soltanto perché “luce” in francese si dice lumière, che è per l'appunto il cognome dei fratelli fondatori. Tarkovskij lo gira alla metà degli anni Sessanta, approfittando del presunto patriottismo del soggetto (neppure la censura sovietica può avere da obiettare su una biografia del più grande pittore russo di tutti i tempi) e trasformandolo subito nel pannello centrale del trittico composta da L'infanzia di Ivan (1962) e dall'altro capolavoro di questa prima fase, Solaris (1972). Da principio Andrej Rublëv non ebbe vita facile, ma presto si impose come un'opera capitale. Di quelle che non si limitano a raccontare una storia, ma sono esse stesse la storia che raccontano.
Così accade nella pittura di icone, del resto, dove la luce «è il principio creativo trascendente delle cose, che mediante queste manifesta se stesso ma in queste non si esaurisce». La definizione viene da Pavel Florenskij, massimo pensatore e testimone della Russia novecentesca (la si legge in Iconostasi, Medusa, 2008), e descrive alla perfezione il percorso che Tarkovskij assegna al protagonista del suo film, magnificamente interpretato dall'attore Anatolij Solonicyn. La vicenda del Rublëv storico – nato nel 1360 e morto a Mosca nel 1430 – è sostanzialmente rispettata, ma ad arricchirla intervengono episodi di marcata intenzione simbolica, che corrono su almeno due direttrici. La prima, più evidente, è quella del rapporto tra Andrej e il maestro Teofane il Greco, in un dialogo attraverso il quale la presenza della misericordia divina nella storia umana si fa sempre più chiara e sempre più aperta alla speranza. Ma non meno importante è il confronto del monaco pittore con l'universo femminile, riassunto nella figura della muta Durochka, la “folle di Dio” che con le mani sporche di fango completa a modo suo l'affresco sul Giudizio Universale che Andrej si rifiuta di eseguire. Cercare di sconfiggere il male evitando di fissarlo in immagini è però un'illusione, dato che il male è parte della realtà, anzi: dell'umanità stessa, come il redivivo Teofane insegna a un Andrej a sua volta contaminato dal peccato per aver ucciso l'uomo che, durante un saccheggio, stava per stuprare Durochka. Nessuno riesce a perdonare se stesso, aggiunge Teofane, perché
solo Dio può perdonare tutti.
C'è una doppia crocifissione, nell'Andrej Rublëv di Tarkovskij. Della prima il protagonista è, in un certo senso, l'autore; la scena si svolge nella sua mente ed è una delle più belle del film, una Passione contadina incisa in un paesaggio di neve e di ghiaccio. Poco dopo, per contrappasso, è lo stesso Andrej a finire crocifisso in segno di spregio al termine di un festino pagano di cui è stato spettatore. Sono, di nuovo, i due versanti dello spirito e della carne che si fronteggiano per interpretarsi a vicenda, in attesa dell'indimenticabile apologo finale in cui il penitente Andrej, che si è dato la regola del silenzio, accompagna il giovanissimo Boriska nell'impresa impossibile di costruire una campana. Bisognerebbe conoscere il segreto della fusione ed è un segreto che il ragazzo sostiene di aver ricevuto in eredità dal padre. Ma l'arte, come la fede, è un'esperienza, non una sapienza, così come è esperienza la luce che, irrompendo nel finale di un film girato tutto in bianco e nero, dona colore alle icone e agli affreschi del vero Rublëv. È a questo punto che si manifesta l'oro, emblema dell'icona. Ma «l'oro non ha colore – scrive ancora Florenskij –, ma ha una tonalità». La stessa che il cinema di Tarkovskij riesce a evocare.