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L'ORAZIONE FUNEBRE

Gianfranco Ravasi venerdì 5 gennaio 2007
Niente è più veritiero di un discorso funebre: dice precisamente quello che il morto avrebbe dovuto essere. «Sono io la morte, e porto corona, e sono di tutti voi signora e padrona"». Ho nell'orecchio queste parole di una canzone di Angelo Branduardi e, proprio davanti al mistero che è contenuto in un nuovo anno, provo ad andare controcorrente e a riproporre un tema che è esorcizzato dalla cultura contemporanea, tutta protesa al presente, renitente a qualsiasi interrogazione su quell'«oltre» che il grande scrittore francese Rabelais (sì, quello di Gargantua e Pantagruel) sogguardava così, una volta giunto alla fine: «Vado a cercare un gran forse». Ora, però, con l'aiuto di un pensatore e critico letterario francese dell'Ottocento, Gustave Vapereau, propongo una particolare considerazione. Sono stato anch'io spesso artefice di orazioni funebri, anche perché, giunto alla mia età, cominciano ad essere molti gli amici o i familiari che hanno varcato quella soglia estrema della vita. Devo confessare di aver usato anch'io la spezia dell'elogio, ma non in modo tale da stravolgere la verità, perché ho avuto la fortuna di aver incontrato persone che hanno dato molto non solo a me ma alla società. Tuttavia quello che dice Vapereau potrebbe spingerci a far sì che la nostra esistenza lasci dietro di sé una scia di generosità, di amore, di luce così da rendere più agevole e più sincera l'opera di chi terrà quel discorso. Ma soprattutto quelle parole abbiano la conferma da parte di chi è vissuto accanto a noi e da quel Dio che sta registrando la nostra storia nel suo «libro della vita».