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L'Inter insegna a tutti la “regola” dell'1-0 non sbaglia mai

Italo Cucci martedì 10 novembre 2015
Mi vien da ridere quando sento dire che Roberto Mancini sta andando – passatemi il termine – contronatura perché opporrebbe un calcio avaro e cinico alla passione per un calcio nutrito d'estetica come la sua persona: dalle gesta di pedatore raffinato e egoista, e dall'uomo che non ha mai rinunciato all'eleganza del portamento e dell'abbigliamento d'alta sartoria napoletana, non ci s'aspettava un'Inter dura, arroccata, similcatenacciara, herrerriana che va a caccia dell'1 a 0, accontentandosi di vittorie magre e sicure e predicando il verbo bonipertiano del «vincere è l'unica cosa che conta». I qualunquisti d'antan manca poco che gli dicano «ma come si permette?», dimenticando che la Milano di scuola breriana, soprattutto in casa nerazzurra, è stata sempre contro la scuola “napoletana” del Bel Giuoco, del pettinfuori, del cuore oltre l'ostacolo. Gli sarebbe bastato – a questi critici – essere a San Siro la sera in cui il cosiddetto pitbull Gary Medel ha fatto fuori la Roma con un golletto assassino difeso per oltre un'ora con l'unghie e i denti; gli sarebbe bastato sentire quell'urlo d'affamati piovuto nel gran finale sulla testa dei gladiatori de Milan per capire che l'Inter Pazza & Beneamata è anche ingorda di battaglie nel ricordo di Burgnich, Guarneri e Picchi; e siccome Mancini non è un frufru ma un allievo del Maestro Boskov si fidano che la sua non sia strategia micragnosa ma tattica fruttuosa. Mancio va in sartoria a Napoli e veste la sua naturale eleganza proprio lì dove il suo più forte avversario, Maurizio Sarri, scandalizza per la tuta portata come smoking, per quegli occhiali da farmacia che gli scivolano sul naso sudato quando parla con Ilaria D'Amico, e tuttavia è adorato per quei quindici risultati utili consecutivi che ha colto con un Napoli elegantissimo in Italia e in Europa segnando gol a grappoli prima di accettare a sua volta, senza dolori, l'1 a 0 che vale tre punti a spese di una onorevole Udinese. Cos'è? – si chiedono i tifosi azzurri –: una inversione di tendenza o una scelta obbligata dettata da prudenza? È possibile che al gol dell'avarissimo Kondogbia si risponda soltanto con l'ennesimo solitario acuto di Higuain? Sì, è possibile che il Maestro Sarri si sia accorto che una più attenta protezione difensiva potrebbe rendere invincibile il già magico Reina, portiere e libero, direttore d'orchestra e saracinesca; siccome ha un commando di goleador insaziabili non gli porrà limiti, questo mai, e tuttavia non disdegnerà i tre punti colti con un'incursione vittoriosa del Pipita. Il quale è già adorato come erede di Don Diego de Maradona ma non si dà allo spettacolo, non corre ad agitare la già ribollente folla del San Paolo ma festeggia con modestia anche il duecentesimo gol colto fra Real, River e Napule'. Gli azzurri hanno capito la lezione del Maestro e già si preoccupano perché al prossimo confronto, a Verona, là dove Giulietta è ancora imbronciata per antichi epiteti, non ci sarà Koulibaly, il gigante che regge la difesa all'antica, come Sarri sa, avendo frequentato diciassette piccoli campi di battaglia italici, mentre il Mancio – ch'è più vecchio di lui di cinque anni, e non si direbbe – studiava nelle migliori Università del calcio continentale. È la dimostrazione che alla fine il calcio è uno solo. E per questo – come diceva il giovin Veltroni – è una scienza da amare.