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La decisione dell'Ue su Facebook non è solo una buona notizia

Gigio Rancilio venerdì 4 ottobre 2019
Un colpo alla libertà di espressione o un passo verso un internet migliore? La domanda di fondo è questa. E anche se può sembrare semplice, non è così facile rispondere. Ma andiamo con ordine. Ieri la Corte di Giustizia Ue ha disposto che «un qualsiasi Stato membro dell'Unione europea potrà imporre a Facebook la cancellazione di contenuti illegali e il blocco della consultazione di questi da parte degli utenti».
Non solo. Con questa sentenza, Facebook dovrà anche «rimuovere le informazioni il cui contenuto sia identico a quello di un'informazione precedentemente dichiarata illecita». E non è finita qui: «Si obbliga anche il social network a operare autonomamente, qualora venisse a conoscenza della presenza, sulle proprie pagine, di informazioni illegali».
Tutto nasce in seguito alla denuncia dell'allora deputata austriaca Eva Glawischnig Piesczek, che aveva citato Facebook Ireland (responsabile dei contenuti europei del social) dinanzi ai giudici austriaci. La Corte suprema dell'Austria ha chiesto alla Corte di giustizia europea di pronunciarsi e il risultato è una sentenza che potrebbe cambiare di molto l'attuale panorama.
Diciamo subito che, anche se è riferita a Facebook, di fatto chiama in causa tutti i servizi di hosting, cioè tutte le piattaforme e i servizi che ospitano contenuti multimediali. E attribuisce loro maggiori responsabilità.
Difficile, a prima vista, non gioire davanti ad una richiesta simile. Ma le cose non sono così semplici come appaiono. Perché l'unico modo che Facebook ha di vigilare preventivamente sulla mole di contenuti che ogni minuto vengono pubblicati sul social è quello di adottare filtri automatici. Solo che al momento nessuna intelligenza artificiale è così evoluta per distinguere un «contenuto illegale» da uno che lo cita per stigmatizzarlo. Così come non è ancora in grado di capire l'ironia e tanto meno i dialetti. Il risultato più probabile sarà un numero crescente di «censure preventive» che potenzialmente potrebbero colpire chiunque.
Su Facebook, ha sottolineato il portavoce della società, «abbiamo già standard della comunità che stabiliscono ciò che le persone possono e non possono condividere». Ma sappiamo tutti che è una favoletta, visto che, per esempio, imperversano pagine con bestemmie sulle quali Facebook non ha nulla da dire. Su una cosa, però, ha ragione: «Questa sentenza mina il consolidato principio secondo cui un Paese non ha il diritto di imporre le proprie leggi sulla libertà di parola ad un altro Paese. Inoltre, apre la porta ad obblighi imposti alle aziende del web di monitorare proattivamente i contenuti per poi interpretare se sono "equivalenti a contenuti ritenuti illegali"».
Quest'ultimo è un altro punto importante. Cosa significa che un contenuto è «identico» o «equivalente»? Se lo chiedete a un essere umano, probabilmente avrete risposte simili a quella che dareste voi. Ma una macchina non coglie le sfumature. Per esempio, quante righe si possono riprendere di un contenuto illecito in un articolo di critica, senza che anche quest'ultimo venga rimosso da un sistema automatico perché considerato «identico» o «equivalente» al contenuto «illegale»?
Non a caso Facebook ha chiesto che i tribunali nazionali «prevedano definizioni molto chiare su cosa significhino concretamente "identico" ed "equivalente"». E che tutti, aggiungiamo noi, abbiano regole simili. Altrimenti, visto che un Paese europeo può chiedere di cancellare anche negli altri Stati «contenuti illeciti», ma anche quelli che esso ritiene «identici» ed «equivalenti», si rischia il caos. Senza arrivare allo scenario peggiore: che un tribunale chieda di cancellare da ogni Paese europeo contenuti scomodi bollati come illegali, facendoli così sparire. Facebook ovviamente fa i suoi interessi, ma non ha torto quando spera «che i tribunali adottino un approccio proporzionato e misurato, per evitare di limitare la libertà di espressione».