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In una società «senza trauma» il romanziere adotta l'estetica punk?

Alfonso Berardinelli sabato 9 luglio 2011
In un saggio di circa cento pagine (Senza trauma, Quodlibet) Daniele Giglioli tenta un definizione del romanzo italiano all'inizio del nuovo millennio. Il tentativo è audace e l'idea centrale del saggio è originale, anche se definire il tempo presente come «epoca» è sempre un azzardo ad alto rischio di arbitrio. Il presente è storia, eppure non è ancora storia: le sue caratteristiche fondamentali restano in gran parte inaccessibili. Ciò che ora accade lo abbiamo continuamente sotto gli occhi, ma proprio per questi ci abbaglia, ci confonde.
Ma non intendo muovere obiezioni di principio a Giglioli. La sua interpretazione infatti la condivido: molti prodotti della narrativa attuale si presentano come «scrittura dell'estremo», dice Giglioli, proprio perché viviamo in un'epoca (e in una zona del pianeta) in cui l'estremo è raro e il solo vero trauma è «l'assenza di trauma». «Il travestimento dell'estremo, dell'osceno, dell'incommensurabile» è diventato la forma di scrittura più ricorrente, mentre, per paradosso, «mai la vita umana è stata così protetta (...) Tutto è cura, tutela, comprensione, diritto alla felicità. La felicità è anzi un dovere».
Ma la letteratura maschera e rovescia questa situazione. Estremizza il linguaggio del pericolo, del rischio e dell'inusitato proprio quando tutto ciò lo abbiamo accuratamente respinto fuori dalla nostra vita quotidiana. In termini sia teorici che storici, il libro di Giglioli analizza e discute una serie di autori italiani: soprattutto Scurati, De Cataldo, Tiziano Scarpa, Franchini, Saviano, Siti, Moresco, Genna. Un riassunto veloce farebbe torto alle qualità speculative del discorso di Giglioli. Concludo solo con un interrogativo: gli stili dell'estremismo, nati in filosofia e in poesia, nelle avanguardie artistiche e politiche novecentesche, conquistano ora i territori del romanzo? I nostri narratori giocano con il nazismo? O adottano l'estetica punk?