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In trincea con due antieroi che vanno oltre la commedia

Alessandro Zaccuri giovedì 14 dicembre 2017
Che cosa andiamo a vedere questa sera? Una commedia o un film drammatico? Qualcosa di divertente o qualcosa di più impegnativo? Al cinema più che altrove i cosiddetti “generi” hanno svolto da sempre un ruolo importante nell'orientare le scelte del pubblico, anche se poi, per fortuna, il cinema stesso ha rapidamente sviluppato una capacità tutta sua nel mescolare linguaggi e toni narrativi. Molti capolavori si fondano su questa alternanza continua e spesso imprevedibile tra le polarità del riso e del pianto, senza trascurare la gamma pressoché infinita delle emozioni intermedie.
A quasi sessant'anni dalla sua realizzazione, e nel centenario esatto degli eventi storici a cui si ispira, La grande guerra di Mario Monicelli rimane l'esempio perfetto di questa mobilità. Leone d'Oro al Festival di Venezia del 1959 a pari merito con un'altra produzione italiana di argomento bellico, Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, il film nasce da un'idea di Luciano Vincenzoni, che ne firma la sceneggiatura con il regista e con gli infaticabili – e ispiratissimi – Age & Scarpelli. Il spunto è tra i più tipici della commedia di casa nostra: il milanese Busacca e il romano Jacovacci si ritrovano uniti, volenti o nolenti, nell'affrontare una serie di peripezie di fronte alle quali emergono i gli aspetti meno lusinghieri del carattere nazionale. Entrambi si arrangiano con il piccolo cabotaggio delle furbizie e del minimo tornaconto personale. Non sono cattivi, ma di loro non ci si può fidare. E non possono fidarsi neppure l'uno dell'altro, visto che nel pieno dei combattimenti il più astuto dei due, Busacca, addossa la colpa delle proprie inadempienze allo sprovveduto Jacovacci.
Ci sarebbe di che sorridere, sia pure con amarezza, non fosse che il contesto è quello appena evocato.La guerra, appunto. No, peggio ancora: la grande guerra, il carnaio del '15-'18, come si diceva una volta, descritto nel periodo che fa perno sulla tragedia di Caporetto. Per portare la comicità in trincea serve, oltre a una sceneggiatura eccellente, una coppia di attori straordinari, che in questo caso sono Alberto Sordi nel ruolo dell'indolente e struggente Jacovacci e Vittorio Gassman in quello di un Busacca tanto sicuro di sé da suscitare un'involontaria simpatia. Due italiani nella media, verrebbe da dire, forse un po' più lavativi del solito, come lamentano a più riprese i commilitoni. Due poveracci, sì, ma a lungo accompagnati da una paradossale forma di fortuna, che dà loro l'illusione di riuscire sempre a trarsi d'impaccio.
La grande guerra guida lo spettatore in una galleria di situazioni puntualmente sfiorate da una singolare leggerezza, con personaggi non di rado consegnati alla tempestività di una battuta o anche solo all'eco di un accento regionale. Con almeno un memorabile ritratto femminile (Costantina, la prostituta interpretata da Silvana Mangano) e un susseguirsi di scene d'azione che di volta in volta riescono a trasmettere il carattere aleatorio del combattimento. Al finale si arriva comunque impreparati, perché niente farebbe sospettare che, davanti all'accusa di vigliaccheria, anche un vigliacco possa morire da eroe. Pur restando un vigliacco e tale continuando a proclamarsi, anzi. Si smette di ridere e ci si ritrova a piangere in un istante, mentre in lontananza il plotone di esecuzione austriaco esegue gli ordini. E intanto si ricorda quella frase bellissima, pronunciata dal cappellano militare nel mezzo della strage. Dov'è adesso Gesù Cristo?, gli hanno appena domandato. Qui con noi, risponde il prete: «Se è vero che ha trentatré anni, è dell'84».